Fabian Nicieza, americano di origini argentine è stato uno dei due sceneggiatori che all’inizio degli anni ’90 ha raccolto l’eredità di Claremont sui titoli mutanti della Marvel. Nel corso della sua carriera, oltre che per la Casa delle Idee ha scritto anche per la Acclaim Comics e negli ultimi anni è attivo in numerose testate della DC Comics.
Ciao Fabian, grazie per essere qui con noi a Lo Spazio Bianco in questo speciale dedicato al cinquantesimo anniversario di Uncanny X-Men.
L’anno scorso abbiamo intervistato Bob McLeod su quel capolavoro di Kraven’s Last Hunt, che secondo tutti i fan come noi è un pezzo di storia dei comic books. Quando ha iniziato a risponderci ci ha detto “sono un artista, e non faccio molta attenzione a questo genere di cose. Mi sono concentrato sui lavori che mi sono stati assegnati, e mi sono focalizzato nel realizzarli al mio meglio”. Questo significa che a volte noi fan amiamo talmente i comic books che non siamo capaci di vedere che, anche se mossi dalla passione, sceneggiatori e illustratori stanno forse giusto “facendo il loro lavoro”.
Dunque… Nel recente passato hai affermato di non avere un ricordo speciale del periodo che hai passato sui titoli degli X-Men (1992/1995). Ci potresti raccontare che cosa non è funzionato in questa tua esperienza lavorativa? Hai conservato qualcosa di buono da quegli anni?
Ci sono state molte cose che non credo stessero funzionando creativamente a quel tempo, per me. Penso che ci fosse poca o nessuna sottigliezza nel nostro approccio, una cosa che era endemica a quei tempi ma che anche noi abbiamo alimentato, un po’ come dare zucchero a un bambino e poi sorprendersi se lui si dimostra iperattivo.
Il mio metodo di lavoro era molto diverso da quello del nostro editor, Bob Harras, e dal mio co-architetto di franchise, Scott Lobdell. Eravamo tutti amici, ma questo ha portato a una frustrazione continua rispetto a come gli albi erano pianificati e scritti. La quantità di pressione alla quale eravamo sottoposti dagli allora avidi proprietari della Marvel era assurda e ogni volta che superavamo le aspettative di vendita, invece di farci le congratulazioni, dicevano “datecene di più”.
Molte cose erano eccitanti, la popolarità degli albi, l’aura da “rockstar” è stata divertente per un po’, la paga era sostanziosa e ha creato delle fondamenta solide per la mia famiglia, ma il lavoro creativo in sé non era mai qualcosa di cui mi sentivo soddisfatto.
Fortunatamente ho potuto scrivere numerosi altre serie che trovavo più appaganti creativamente, per cui non era un costante piagnucolare e soffrire.
Secondo i fan (e noi) quello è stato un periodo d’oro per le X-pubblicazioni (grandi saghe come Executioner’s Song, Fatal Attractions, Phalanx Covenant, ecc.). Tu e altri scrittori eravate liberi di decidere cosa fare in questi “crossover”, oppure il fatto di ritrovarvi a lavorare assieme era un po’ limitante?
Abbiamo fatto molto di quel che abbiamo fatto attraverso poche scelte personali. I crossover vendevano. Erano grandi eventi. Quindi le aspettative imposteci dicevano che dovevamo continuare a farne. Sfortunatamente, questo ha creato un ritmo forzato alla danza: quando sai che devi fare un crossover due volte all’anno, o qualcosa del genere, sei costretto ad adattarti ai tempi del “grande evento” invece che ai bisogni specifici di un albo o dei personaggi. Penso che l’ironia venga dall’aver osservato come il nostro lavoro sia stato denigrato da così tante persone negli anni successivi, sia fan che professionisti – alcuni dei quali erano ai più alti livelli della Marvel, e che allo stesso tempo erano felici di intascare i soldi che ricevevano dal ristampare tutto il materiale o nel rivisitare quasi ogni nostra singola storia – Third Summers Brothers, Age of Apocalypse, eccetera – per alimentare il loro lavoro attuale.
Mentre tu stavi scrivendo X-Men, Uncanny X-Men era scritto da Scott Lobdell. Pianificavate assieme delle direzioni per le storie? O persino l’uso di un singolo personaggio?
Ce li mercanteggiavamo avanti e indietro. Ciascuno di noi “reclamava” alcuni personaggi per un certo arco narrativo. La maggior parte del tempo la cosa funzionava.
Da un punto di vista “professionale”, quel periodo ti ha lasciato qualcosa di buono? Intendo dire, hai avuto modo di lavorare “vicino” ad altri grandi nomi dei comics. Hai avuto modo di imparare da loro alcune delle loro competenze?
Mi ha lasciato molte buone cose. Non voglio fare suonare la cosa come se fosse terribile o quant’altro, perché non lo è stata. Semplicemente preferiresti che, in una retrospettiva sulla tua carriera, il lavoro che hai fatto che ha raggiunto il pubblico più grande fosse quello di cui sei il più orgoglioso. Ma, con gli X-albi, non è stato il caso per me.
Capiamo che il tuo periodo con gli X-Men è stato il risultato della tua professionalità più che della tua passione: che genere di feedback hai avuto dai tuoi lettori?
Dunque, il feedback da parte dei lettori è una cosa relativamente coerente. Una certa percentuale ama il tuo lavoro più di quel che dovrebbe, un’altra lo odia più del dovuto, tutti gli altri stanno nel mezzo. Ci sono state persone che hanno atteso due ore in fila alle convention per una sessione di autografi, e uno poteva dirmi che un albo specifico era stato il miglior fumetto che lui avesse mai letto, e magari il tizio in fila dietro di lui poteva dirmi “fai schifo”.
Si impara rapidamente a prendere tutto questo con le pinze, altrimenti ti può fare impazzire. Per la maggior parte le reazioni erano sempre molto positive e, francamente, le vendite lo confermavano.
Che cosa avresti fatto se ti avessero dato carta bianca, senza alcun limite, durante il tuo periodo con gli X-Men? C’è qualcosa che avresti voluto fare ma che non hai fatto che vuoi raccontarci?
Non ho mai vissuto una vita di “questo è quel che avrei dovuto fare” dopo aver chiuso un albo. Altri scrittori lo fanno, ma non io. Qualsiasi cosa sia stato, nel bene o nel male, è quel che è stato.
Pensi che il concetto di base degli X-Men (ineguaglianza, paura dei mutanti, eccetera) fosse valido e/o fosse una buona scusa per parlare di questi soggetti in un comic book?
Sì, penso che il tema sia stato toccato da Stan Lee e da Roy Thomas, ma esplorato più in profondità da Chris Claremont. Penso abbia creato una base molto potente per gli albi e per i personaggi. A volte è rappresentato in modo più fine e ingegnoso che in altre, ma credo che questi temi dovrebbero rimanere una costante nelle X-pubblicazioni.
Intervista effettuata via mail e conclusa il 06/03/2013
Traduzione di Alessandro Munari
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