TEX 600 – Don Chisciotte al tempo della Colt

L’articolo è una parziale rielaborazione di “Aquila della Notte forever”, in Brancato S. (a cura di), 2008, Il secolo del fumetto, Tunué, Latina; originariamente pubblicato su Quaderni D’Altri Tempi, nella monografia del numero 28 dedicata a Tex Willer

Ad Almerico Fattori, che quando avevo appena imparato a leggere,
mi fece scoprire l’Avventura e l’Etica, e che la Legge e la Giustizia non sempre sono la stessa cosa.


Una pianura desolata, brulla, fatta di dossi e di avvallamenti. Qui è là, piante scheletriche, assetate. Sullo sfondo, contro il sole al tramonto, due sagome: un cavaliere segaligno, alto, armato di una lunga lancia, con uno strano elmo piatto in testa, in groppa ad un cavallo che si indovina scheletrico, e a fianco a lui, un uomo più basso, grassoccio, in groppa ad un somaro. Sulla destra, più o meno a metà strada fra le due figure avanzanti e l’osservatore, un mulino a vento, le cui pale si muovono lentamente, spinte dal vento. Arrivati al mulino i due si fermano, e l’uomo alto parte alla carica, lancia in resta.
L’arma intercetta (per puro caso) una delle pale, vi rimane impigliata, nel suo movimento la pala solleva arma e cavaliere, che, sbalzato da cavallo, lascia la lancia e cade per terra a gambe all’aria. È Don Chisciotte, hidalgo, cavaliere, ma soprattutto, uomo d’onore (de Cervantes, 2007); la cui parola è sacra, e che lotta per la verità e la giustizia. Una delle prime emergenze dell’uomo moderno, nato dall’umanesimo (Carroll, 2009), ma condannato alla sconfitta nel suo non saper ancora distinguere fra realtà e immaginazione. Ancora nel guado fra sacro e secolare.

STACCO

Una pianura desolata, brulla, fatta di dossi e di avvallamenti. Qui è là, piante scheletriche, assetate. Sullo sfondo, contro il sole al tramonto, la sagoma di un uomo: è aitante, robusto, porta un cappello dalle falde larghe, per ripararsi dal sole e dalla pioggia, avanza guardingo, attento. Si sente un colpo di fucile. Si intravede qualcosa di luccicante che lo sfiora, lo sorpassa. Si ferma, guarda nella direzione da cui è arrivato lo sparo, poi il proiettile. Con calma estrae il Winchester dalla guaina sul fianco della sella. Prende la mira, spara. Posa il fucile di traverso sulla sella davanti a sé. Riprende a muoversi, coi sensi all’erta, nella direzione da cui è partito il colpo di fucile che lo ha sfiorato.

È il ranger del Texas Tex Willer, Aquila della Notte per i Navajos, di cui è il sakem. La sua parola è sacra. Ed è legge. È anche lui un uomo d’onore, come Don Chisciotte. Solo, più scaltrito dal tempo, dai secoli passati dalla morte del suo predecessore. Il suo fine è la Giustizia. E la ottiene. È un eroe, ma pienamente moderno.
Il “cavaliere dalla trista figura” che ci proviene dal primo romanzo della modernità, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, è un personaggio di confine, colto nel momento in cui si verifica una frattura: quella fra l’antico e il moderno, fra l’epoca dell’ordo medioevale e l’emergere della ratio borghese: ha alle spalle i cavalieri erranti delle saghe medioevali, e davanti… uno specchio, quello della riflessività del Sé umanista – Cervantes ce lo mostra quando l’hidalgo scopre che qualcuno ha scritto le sue avventure al posto suo… Ma ci rimane incastrato dentro, a pendolare fra il mondo oltre lo specchio e il nostro, in una versione primordiale della leggenda, riportata da Jorge Luis Borges, della vicenda del “popolo degli specchi” (2006). Tex Willer, invece, è in pieno una creatura del Novecento: è il protagonista di un fumetto western. Questo è il primo – elementare, ma imprescindibile – dato da cui partire. Che prospera direttamente su una delle radici più fertili e longeve dell’immaginario collettivo.
Il mito del West americano è peraltro uno dei pilastri su cui si fonda la vicenda del cinema, a partire dagli anni Dieci del XX secolo, grazie anche alla possibilità di sfruttare il grandioso set naturale offerto dall’Ovest americano. Luogo magico, come scrive anche Jean Baudrillard nel suo diario americano, prima descrivendo il Grand Canyon del Colorado:

Monumentalità geologica, dunque metafisica, al contrario dell’altitudine fisica dei rilievi naturali. Rilievi inversi scolpiti in profondità dai venti, dall’acqua, dal ghiaccio, introducono nella vertigine del tempo, nell’eternità minuziosa di una catastrofe al rallentatore
(Baudrillard, 1986, p. 12, traduzione dell’autore).

Poi descrivendo la Monument Valley (per intenderci, quella di tanti film western e di tante avventure del ranger):

In questo gigantesco accumulo di segni, di essenza puramente geologica, non c’è per nulla l’aura dell’uomo. Forse solo gli indiani ne hanno interpretato una debole parte. Pertanto questi sono segni. Perché la naturalità (inculture) del deserto non è che apparente. Tutto il paese navajo, il lungo plateau che conduce verso il Grand Canyon, le falesie che precedono la Monument Valley, gli abissi del Green River […], tutto questo paese riluce di una presenza magica, che non ha nulla a che vedere con la natura
(Ibidem, p. 13, t.d.a.).

E il cinema, come il fumetto, alimenta il mito per tutto il secolo, rielaborandolo sempre in maniera fertile, attraverso tutti i passaggi e le trasformazioni del gusto e della sensibilità che quella fase storica ha conosciuto.
Tex, rubando al cinema, alla letteratura, al fumetto stesso, nutre se stesso e interpreta il West nella maniera più classica, in termini di character lui stesso, di comprimari e antagonisti, di scenari e ambientazioni (Frezza, 2008, p. 185).

Per le stesse ragioni riesce a reinterpretarsi continuamente, assorbendo progressivamente ma completamente anche la lezione che viene dalla rivoluzione operata nel western da Sergio Leone, e poi da coloro che come Clint Eastwood anche a Hollywood hanno saputo seguirne le tracce, riuscendo a mantenersi al passo con le strategie evolutive dei linguaggi che gli stanno intorno, fino a tener conto, anche se indirettamente, del West apocalittico e minimale di Cormac McCarthy, e dei suoi personaggi a volte anche donchisciotteschi, pur rimanendo sempre ancorato alle sue origini. Un’indubbia prova di attenzione all’evoluzione della comunicazione, dei generi – e quindi del pubblico. E resiste, prospero, da sessant’anni. Senza flessioni. Senza crisi È bastato aggiungere, a partire da circa venti anni fa, un paio di appuntamenti annuali con albi unici, autoconclusivi, “fuori serie” per dimensioni e periodicità, all’appuntamento mensile, per confermare e rafforzare il legame con il pubblico degli appassionati.
Solo la RAI è riuscita a non far fruttare quest’aquila dalle uova d’oro (Brancato, 2007, pp. 51-54).
Anzi, l’Albo speciale che viene pubblicato a giugno di ogni anno è il luogo dove la Bonelli ha mostrato la sua attenzione ai disegnatori esterni alla propria area, facendone il luogo in cui ospitare firme prestigiose e provenienti da altre esperienze e direzioni, mostrando così la propria apertura e disponibilità all’universo del fumetto in generale. Attuando così la propria forma di mediazione fra le esigenze della continuità e quelle dell’innovazione.
Cosa sorprendente, forse, per quei critici snob troppo legati all’inseguimento del “cambiamento” e della “ricerca”. Come se l’attualità, il “nuovo”, lo “sperimentale” – qualsiasi cosa vogliano dire – facciano sempre aggio su tutto il resto. Come se le forme più “antiche” non conservino – almeno per un po’, almeno a volte – una loro energia produttiva e significativa.
È vero, Tex ha come luogo di nascita e di espressione uno degli universi mitici cruciali della modernità, il West, in tutta la sua vastità geografica e fertilità immaginativa. Lo allarga addirittura, colonizzando anche l’altra grande direttrice del cinema classico d’avventura, la giungla d’asfalto – la metropoli, l’altra faccia della cultura novecentesca, e la sua matrice.
Arriva ad esplorare l’intero universo dell’immaginario fantastico della modernità, dai mondi perduti, al cappa e spada, alla science fiction (Fattori, 2008).
Lo fa in maniera creativa e coerente, senza mai strafare o rinunciare alla sua pragmaticità. Ma può bastare tutto ciò, a spiegarne il primato?
A pensarci bene, fin qui siamo in un campo abbondantemente esplorato – almeno dagli studiosi dei dispositivi e della natura dell’industria culturale. In effetti, pur riconoscendo la qualità particolare – il timbro, se si vuole, unico – dell’universo  narrativo assemblato dalla “banda Bonelli”, forse lo stesso vale – magari non con identica sistematicità e coerenza – per altri territori. Ci deve essere qualcos’altro. Che magari attiene alle radici mitiche dei personaggi come Aquila della Notte: qualche tratto – o qualche configurazione di tratti – che vengono prima del suo personaggio, e che i suoi autori hanno saputo però rielaborare e riorganizzare in maniera speciale. E che è all’origine della sua fortuna particolare.
Michael Moorcock, fondatore con James G. Ballard della New Wave britannica, il movimento che negli anni Sessanta del XX secolo provò a innovare la science fiction promuovendo lo spostamento del suo sguardo dallo spazio esterno – quello dei pianeti e delle galassie – allo spazio interno – quello della coscienza e dell’identità, ha avuto in particolare il merito di recuperare gli ambiti e i materiali che potevano essere considerati dai puristi e dai critici i più triviali e minori: quelli della space opera e della heroic fantasy, genere praticamente omonimo e complanare alla sword & sorcery, ambientata in universi mitico/medioevali, intrisi di sacro, popolati di stregoni, incantatori, guerrieri e principesse. Moorcock comincia la sua avventura nella narrativa riscrivendo il John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs (1978), il creatore – per inciso – di Tarzan delle scimmie. E vale la pena di ricordare che John Carter si ritrova trasferito su Marte dopo essersi nascosto in una caverna per sfuggire a una banda di pellerossa che lo inseguono, a dimostrazione di come agli albori dell’immaginario contemporaneo (siamo nel 1917) il West abbia una cruciale funzione mitopoietica. Lo scrittore britannico gli cambia nome, in Michael Kane, ma le caratteristiche del personaggio sono le stesse, come la sua forza e la sua “personalità”.
Quando pubblica il suo ciclo di Marte, tre romanzi nel 1965, lo scrittore ha già dato alle stampe, tre anni prima, Il campione eterno, che non solo diventerà la prima opera di un altro ciclo di romanzi, ma sarà il termine con cui definirà l’idea che porrà al centro dei suoi romanzi. Ispirato a Conan il barbaro, il protagonista dei romanzi che Robert E. Howard scrisse negli anni Trenta del Novecento, il “Campione Eterno” assume molte identità attraverso le tante dimensioni di cui è fatto il “Multiverso” che costituisce la cosmogonia in cui Moorcock colloca i suoi personaggi e le sue storie, fino ad incontrare a volte se stesso, seppur sotto altre spoglie, passando da un universo narrativo ad un altro attraverso le soglie, le pieghe, le curve di dimensioni a cavallo fra Escher e Mœbius.

Il “Campione Eterno” è impegnato nella lotta, eterna, non solo contro le possibili varianti del Male convenzionale, ma anche per garantire l’equilibrio metafisico tra l’Ordine ed il Caos. È, evidentemente, già una figura della postmodernità, vista la sua propensione a transitare – metaforicamente – da una sfera di realtà e di conoscenza ad un’altra, ma anche perché quella in cui si muove Moorcock è di fatto una dimensione profondamente metanarrativa, oltre che intrisa di profonda ironia. Questo tratto metanarrativo appartiene anche a Tex, anche se in termini in parte diversi: periodicamente, davanti al fuoco di un bivacco, Aquila della Notte, a volte con Capelli d’Argento, a volte con Tiger, a volte da solo, racconta di avventure precedenti alla sua “nascita” di carta. Si costruisce così una sua mitologia, una serie di elementi che vanno a costituire un vero e proprio “mito di fondazione”, e in cui vengono definiti i tasselli che sono alla base del suo personaggio, della sua etica, della sua nascita come eroe: la sua partecipazione alla guerra civile, per esempio, o la perdita della sua amata Lilith…  Quindi, da cosa è formata l’identità profonda del “Campione Eterno”? Quali le esperienze che lo hanno formato? Cosa lo individua, nelle sue infinite incarnazioni, e lo rende riconoscibile al lettore? È semplicemente un’incarnazione più “muscolare” degli eroi medioevali? Innanzi tutto – questo è vero – è un guerriero.
Quando ci si presenta, e iniziamo a conoscerlo, il campione appare subito senza paura: della morte, del dolore, del sacrificio. Ancora, il suo comportamento è profondamente etico, sempre pronto a difendere gli oppressi, i deboli, e feroce contro i rappresentanti del male, qualunque forma prendano.
Ha con sé, o sparsi nel mondo, ma sempre a disposizione – come egli stesso è per loro – per correre in suo aiuto, degli amici. Amici veri, fratelli, compagni di strada e di avventure, che condividono i suoi valori e i suoi sforzi – il suo orgoglio.
La sua è una giustizia sostanziale, non istituzionale, senza cavilli e distinguo. E, nella maggior parte dei casi, mette da parte “l’arme della critica” per “la critica delle armi”. Più convincenti come strumenti, più durature in quanto effetti, ammettiamolo. In quanto eterno, il campione sopravvive sempre, a tutte le prove, anche le più proibitive. Ma l’ultima caratteristica, quella più remota, rivelata raramente e con riserbo, è chiusa nel profondo del suo cuore: un amore antico, perduto, e insostituibile. Forse la vera ragione della sua irrequietudine e della sua lotta eterna contro il Male. Moorcock ne ha ideate e offerte diverse versioni, da Corum a Elric di Melniboné, a Hawkmoon, ma tutti conservano le stesse caratteristiche basilari. Tutti questi character hanno in più una caratteristica comune: sono protagonisti di cicli di romanzi, che li collocano nella dimensione della serialità, in modo tale da potergli permettere di dispiegare in un tempo che per il lettore si distende attraverso l’attesa le loro vicende. Come, in parallelo altri personaggi della stessa natura sono i protagonisti dei romanzi di Alan D. Altieri, sia quelli della “Pentalogia di Los Angeles”, da Città oscura (1981) a Ultima luce (1995), e, ancor di più il Wulfgar della trilogia di Magdeburg (2005 – 2007). Sono tutti eroi disincantati, tormentati, ma determinati e profondamente etici, seppur letali per gli avversari. Guerrieri che agiscono in paesaggi apocalittici e terminali, in scenari che giustamente sono stati definiti neogotici. Alcune delle versioni più conseguenti del mito postmoderno del “Campione eterno”.
D’altra parte, Altieri si è formato traducendo per Mondadori Hammett e Chandler, i romanzi fantasy di George R. R. Martin, lavorando sui set di Conan il distruttore (Richard Fleischer, 1983) e Atto di forza (Paul Verhoeven, 1990)…
Creature del Novecento e della narrativa di massa, non potrebbero esprimere diversamente la loro forza narrativa. E a questa galleria, a buon diritto, si aggiunge Tex. Apparentemente meno disincantato, disilluso, più propositivo. Un uomo del West, e del positivismo. Convinto che alla fine la Giustizia possa trionfare? Forse. O forse solo tutt’uno con la sua missione. Ma non sono solo combattenti, della loro natura fa parte qualcos’altro, pure…
Forse, il personaggio paradigmatico – nato alla fine della vicenda narrativa del Campione eterno, almeno per ora – viene da un altro scrittore, il “Re del brivido” del Maine, Stephen King. È Roland di Gilead, il pistolero, protagonista della saga della Torre nera (1994 – 2004). King, nei sette romanzi che compongono la saga, allestisce uno scenario di universi intrecciati fra loro dove il tempo è scorso in maniera differente, e dove convivono epoche, costumi, tecnologie assemblate discronicamente, in una atmosfera che comunque, in fondo, rimanda alla sfera dello sword & sorcery e dell’heroic fantasy, anche se con le sue consuete incursioni nei cupi universi immaginati da Howard P. Lovecraft. Ma l’aspetto più importante, per noi, ai fini di questo percorso, è che – seppur in maniera laterale, sincretica – Roland appartiene profondamente all’immaginario western, almeno quanto a quello dei medioevi fantastici. È, per molti versi, l’anello mancante, il punto di giunzione fra il Campione eterno di Moorcock, e i classici eroi dell’epopea del West americano. Di cui l’esempio principe è Tex Willer. Anzi, viene quasi da chiedersi se King conosca il personaggio di Bonelli e Galep… solo che laddove nel “multiverso” di Roland epoche e luoghi si mescolano sincreticamente, nel lineare universo di Aquila della Notte si allineano metonimicamente, uno affianco all’altro: l’Arizona, le metropoli, le giungle tropicali, l’estremo nord dei vichinghi, fino ai Caraibi del voodoo, al Borneo della conquista inglese, agli inferni della magia nera… Ecco, laddove Roland di Gilead ogni tanto esce dal suo mondo ancora incantato per arrivare nel nostro, Tex Willer fa il contrario: periodicamente entra in contatto con gli universi della magia e del soprannaturale. Ed è troppo “sgamato” per liquidarli con un’alzata di spalle: combatte anche lì i suoi nemici, apparentemente o meno dotati di arti magiche.

E il pistolero, come il ranger, ha all’inizio delle sue avventure una perdita irrimediabile: la ragazza di cui era innamorato, bruciata come strega per le macchinazioni di una malvagia megera, come Lilith, la sposa di Tex, morirà di vaiolo per i maneggi di un gruppo di avventurieri…
Come un altro grande personaggio della narrativa di avventure, fra l’altro di un autore italiano: la Tigre della Malesia, il Sandokan di Emilio Salgari (2010) (di cui peraltro Tex incontrerà il doppio, la Tigre Nera: un Sandokan diventato malvagio per sete di vendetta), eroe esotico del crepuscolo del colonialismo classico, che ha perso la sua amata, e che – come Aquila della Notte con i suoi Navajos e i suoi pard – può contare su alcuni amici fidatissimi e sui suoi “tigrotti”, i pirati che si farebbero uccidere per lui.
Con le sue versioni a fumetti, come quelle degli anni Trenta disegnate da Rino Albertarelli, l’autore fra l’altro di un Kit Carson parente stretto di Capelli d’Argento, il pard di Tex Willer.
Così, come il personaggio di Miguel Cervantes ha alle spalle la tradizione dei cavalieri feudali, il ranger di Bonelli e Galep ha di fianco, gli eroi del contemporaneo, molto più introspettivi, riflessivi, ma decisamente più concreti, nella ricerca della giustizia, della verità. Laterali ai distinguo della legge umana, contigui al nucleo di un’etica – di fatto – metafisica.

Un’altra considerazione: indubbiamente c’è da riconoscere la fortuna che per tutto il XX secolo e questo scorcio di XXI ha avuto l’area della produzione narrativa che ha tenuto vivo l’immaginario connesso al soprannaturale, al magico, al sacro. Superata la boa dell’affermazione definitiva della modernizzazione e della razionalità, e quindi il punto di non ritorno dell’istituirsi definitivo della società fondata sui ritmi della fabbrica e della metropoli, il “disincanto del mondo” sembra aver intrapreso la sua volata definitiva.
La traccia letteraria di questo punto di svolta è stata costituita dalla breve stagione del fantastico, come lo definisce Tzvetan Todorov (1977) in La letteratura fantastica: una forma narrativa che mette in scena il dubbio, l’esitazione fra una spiegazione razionale ed una soprannaturale degli eventi narrati. Espressione del senso di disorientamento della società che si trovò nel guado fra tradizione e moderno, il fantastico denuncia un vuoto nella definizione della realtà – e non lo riempie. Esprime il perturbante dubbio che nasce dall’insinuarsi dell’irrazionale nella solida materia del reale.
Ma il tempo del fantastico passa presto, e la modernizzazione che avanza colonizza il mondo e le rappresentazioni che ne diamo, aggiudicandosi anche gli universi simbolici precedenti. Reinterpretandoli, naturalmente, e rielaborandoli nella narrativa.

E così, anche la sfera del magico viene recuperata, e dalla fiaba e dal mito classici transita nella narrativa di massa. E sopravvive con l’heroic fantasy e lo sword & sorcery, e con gli esiti più radicali e “classici” di Lovecraft e dei suoi epigoni.
In qualche misura è però disinnescata, normalizzata, allontanata in universi lontani ed alieni. Desacralizzata.
Ma forse, nel nostro tempo, possiamo intravedere altro. Forse la tendenza al disincanto del mondo e alla desacralizzazione totale comincia a trovare qualche intoppo, o perlomeno si incrocia con spinte e tendenze che vanno in direzione contraria, o contrastano il processo principale.
E trovano il loro rifugio e terreno di coltura proprio nei luoghi dove sembrerebbe più imprevedibile percepirli, gli ultimi approdi della tecnologia: il web, il virtuale.
Molte sono le riflessioni che si sono sviluppate negli ultimi anni sul rapporto fra rapporto con i new media e sfera del sacro.

Nell’Introduzione a Techgnosis (Davis, 2001), l’autore scrive:

Incuranti di quanto possa apparire secolarizzata questa condizione moderna, la velocità e la mutevolezza di questi tempi evocano delle proprietà sovrannaturali che devono essere osservate, almeno in parte, attraverso le lenti del pensiero religioso e tramite la fantastica miniera di un’ancestrale immaginazione (pag. 21).

Ed è con questo apparente paradosso in mente che ho scritto Techgnosis: una storia segreta degli impulsi mistici che continuano a dar vita e a sostenere l’ossessione del mondo occidentale per la tecnologia, e in special modo per le sue tecnologie della comunicazione
(pag.22).

In sostanza, Davis sostiene che la dimensione del misticismo – e quindi del sacro – sopravvive, e anzi trova alimento nelle tecnologie della comunicazione.
Altrove afferma:

C’è un’idea che aleggia, ovvero che la secolarizzazione sia un aspetto inevitabile della modernizzazione (…)

Questo semplicemente non è vero in America, e non soltanto nei cosi detti “stati rossi”,
dove vivono i Cristiani conservatori. Il lato inventivo, progressivo e alla ricerca della novità della cultura americana è sempre stato legato a forze religiose e spirituali, sublimate o meno. Io vivo in California… la California ha svolto un ruolo importantissimo nello sviluppo della New Age, del Misticismo contemporaneo, della traslazione delle tradizioni orientali in occidente, della ricerca del sacro attraverso il corpo. In California come ad Hollywood, il disincanto è andato sottobraccio con il ri-incantamento
(Fattori, 2007).

Le sue tesi echeggiano anche in riflessioni più direttamente sociologiche:

… parallelamente all’emergere e al diffondersi di una serie di nuove tecnologie, si è assistito infatti a una sorta di processo di de-individualizzazione, di ri-coinvolgimento, di reincanto del mondo…

Il mondo in cui (l’uomo postmoderno, N.d.A.) si immerge è sempre più quello delle realtà virtuali da lui stesso create, un mondo che, allontanandosi a rapidi passi dalla coinvolgente natura dei suoi antenati premoderni, è però tornato ad essere – stavolta “grazie” alla tecnologia – un mondo reincantato, un mondo magico (Pecchinenda, 2003).

Le considerazioni del sociologo napoletano sono finalizzate ad una riflessione su uno degli ultimi approdi della tecnologia applicata al tempo libero, i videogiochi, ma naturalmente si possono applicare per certi versi all’intera sfera del virtuale e della simulazione. Fra l’altro, per ragionare sul rapporto fra virtualità e reincanto Pecchinenda cita un caso specifico: il film Nirvana di Gabriele Salvatores (1997). Nirvana è un videogame in progettazione il cui personaggio, per colpa di un virus, acquista improvvisamente coscienza di sé. Presto scopre di essere destinato ad essere “clonato” in migliaia di esemplari e di essere condannato ad una eternità di morti e di rinascite.

E cerca di ribellarsi, rivolgendosi al suo “creatore”, il programmatore, perché lo “uccida”, e lo sottragga alla condanna di vite infinite negli spazi e nei tempi della realtà virtuale. Estremo, definitivo approdo della serialità, “concreta” realizzazione dell’idea degli universi paralleli teorizzati dalla science fiction, ognuno dei quali differente da quelli contigui per un minimo particolare, in una infinita serie. Il film di Salvatores rimanda quindi a due elementi cruciali: le infinite resurrezioni degli avatar che popolano i videogame – e così si conferma l’idea che la virtualità sia il terreno del reincanto in cui ritrovano cittadinanza il senso e il bisogno di sacro; la centralità dell’eroe e della sua sacralità.
Aquila della Notte, attraverso le sue evoluzioni, la sua capacità di reinventarsi e resistere alle trasformazioni dei tempi e del gusto appare rappresentare proprio questa doppia dimensione. La basilare natura seriale – che gli permette di vivere in uno spazio/tempo ubiquo e ucronico, e la sua identità di eroe, per cui l’onore e la sete di giustizia sono parti inestricabili della sua natura – che permette ai suoi lettori di vivere le proprie utopie.
Ed è qui che si chiude il cerchio aperto dall’hidalgo della Spagna rinascimentale.
Nel prosieguo del Don Chisciotte, scrivevamo più sopra, il cavaliere scopre che qualcun altro, spacciandosi per lui, ha raccontato le sue avventure. E decide di rimettere a posto la verità storica. Ma la sua utopia è troppo in anticipo rispetto ai tempi. Le stesse leggi dell’onore che rispetta, sono quelle che lo incatenano. Tex ha superato questa fase. È fuori del tempo del sacro tradizionale. È già nel mito. Si è nutrito – quasi come l’Highlander del film, senza diventare un predatore – dello spirito delle tante incarnazioni del Campione eterno. E il mito ha regole diverse, pretende la sua ragione. Sfidando le leggi del mondo profano, abbatte anche le leggi degli uomini, quando non permettono di fare giustizia. Perché l’onore, frutto migliore del senso di responsabilità individuale nato con l’umanesimo, per compiersi non può ammettere alibi, e richiede all’eroe di essere fedele a se stesso, fino in fondo, nella sua missione.
E quelli di noi, i loro lettori, che ancora si illudono o pretendono di aver conservato un po’ di senso della giustizia, non potendo ambire alla fortuna di Tex, né alla saggezza di Sancho Panza, si accontentano di assomigliare a Don Chisciotte, difensori poco credibili – e forse un po’ ridicoli – di cause perse in partenza.

 

Letture suggerite:

Baudrillard J., Amérique, 1986, trad. it. America, SE, Milano, 2009.
Brancato S., Senza fine, Liguori, Napoli, 2007.
Borges J. L., 1967, Animales de los espejos, in El libro de lo seres imaginarios, trad. it. Animali degli specchi, in Il libro degli esseri immaginari, Adelphi, Milano, 2006.
Burroughs E. R., Under the Moons of Mars, 1912; The Gods of Mars, 1913;
The Warlords of Mars, 1914, trad. it. John Carter di Marte, Editrice Nord, Milano, 1978.
Carroll J., The Wreck of Western Culture Humanism Revisited, 2004, trad. it. Il crollo della cultura occidentale Fazi, Milano, 2009.
de Cervantes Saavedra M., El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, 1605, trad. it. Don Chisciotte de la Mancia, Rizzoli, Milano, 2007.
Davis E., Techgnosis Myth, Magic & Mysticism in the Age of Information, 1998, trad. it. Techgnosis Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, Ipermedium, Napoli, 2001.
Fattori A., (a cura di), A colloquio con lo sciamano Erik Davis, in Quaderni d’Altri Tempi n. 7, inverno 2007.
Fattori A., Per il West, oltre il tramonto Tex Willer e il suo immaginario, Cagliostro E-Press, 2008.
Frezza G., Le carte del fumetto, Liguori, Napoli, 2007.
Howard R. E., King S., The Gunslinger, 1982, L’ultimo Cavaliere, 1994.
The Drawning of the Three, 1987, La chiamata dei tre, 1990.
The Waste Lands, 1991, Terre desolate, 1992.
The Dark Tower IV: Wizard and Glass, 1991, La sfera del buio, 1998.
The Dark Tower V: The Wolves of Calla, 2003, I lupi del Calla, 2003.
The Dark Tower VI: The Song of Susannah, 2004, La canzone di Susanna, 2004.
The Dark Tower VII: The Dark Tower, 2004, La Torre nera, 2004.
Tutti pubblicati in italiano da Sperling & Kupfer, Milano.
Moorcock M., Warriors of Mars, 1965; Blades of Mars, 1965; Barbarians of Mars, 1965, trad. it. Trilogia di Marte, Armenia, Milano, 1980.
Moorcock M., The Eternal Champion, 1962, trad. it. Il campione eterno, Fanucci, Roma, 1999.
Pecchinenda G., Videogiochi e cultura della simulazione La nascita dell’homo game, Laterza, Roma-Bari, 2003.
Salgari E., Le tigri di Mompracem, Newton & Compton, Milano, 2010.
Todorov T., Introduction à la littérature fantastique, 1970, trad. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 1977.

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