[box type=”note” size=”large”]Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz, trovandosi di fronte a quello che sarebbe diventato il simbolo del nazismo e dell’Olocausto. Nel 2000 il Parlamento Italiano scelse il 27 gennaio per celebrare il Giorno della Memoria nel ricordo delle vittime di quella tragedia. Cinema, letteratura, e non ultimo il fumetto, hanno affrontato in molte forme la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e i terribili effetti della follia umana. Questo articolo fa parte di una serie di articoli che LoSpazioBianco in oltre dieci anni di attività ha dedicato al tema.[/box]
Nel 1991 Art Spiegelman porta a termine Maus, la sua opera più conosciuta. Giudicato dai più che l’hanno letta un vero e proprio capolavoro, Maus risulta essere una cruda rappresentazione dell’Olocausto trasposta a fumetti. Durante lo stesso 1991, in Europa erano già stati gettati i semi di quello che sarebbe diventato il primo conflitto europeo successivo alla seconda guerra mondiale. In Jugoslavia già tanta benzina era stata versata sul tessuto sociale a fornire la giustificazione ufficiale alla guerra: i dissapori etnici che già erano serviti alla bisogna come scusa ufficiale cinquant’anni prima. Di lì a poco sarebbe poi esploso in tutta la sua barbarie il conflitto vero e proprio. Nel 1992 prende le mosse il racconto di Joe Kubert, Fax from Sarajevo, che narra le vicende di Ervin Rustemagic, agente europeo nonché amico personale dello stesso Kubert, che manteneva costantemente informato quest’ultimo sulle sue avventure nella Sarajevo assediata. Il nostro (ambizioso) tentativo è quello di parlare di questi due libri accavallando i commenti, annotando le somiglianze, rilevando in che modo la lezione insegnataci dalla seconda guerra mondiale e da Maus stesso sia stata del tutto inascoltata. Sicuramente, da questo punto di vista, la guerra civile nell’ex-Jugoslavia è la più grossa sconfitta di chi ha tentato di mantenere vivo il ricordo dell’Olocausto. Sembra infatti incredibile come lo stesso stratagemma del conflitto etnico, della superiorità di una razza rispetto all’altra, sia stato utilizzato per spingere le masse a combattere una guerra che, in effetti, ha avuto ragione d’essere fino a quando non c’é stato più nulla da rubare, da razziare, da espropriare ai bosniaci. Entrambi i racconti sono emblematicamente in bilico fra documentarismo, arte, creatività grafica e autobiografismo. In ambedue i casi il cordone sentimentale che lega l’autore alla storia è spesso e stretto.
Art Spiegelman ci narra di come il padre e la madre abbiano attraversato gli orrori dell’epoca nazista, e di come per tutta la sua vita questa storia abbia influito in maniera decisiva sul suo modo di porsi verso i suoi genitori, verso se stesso e la vita in generale. Joe Kubert invece racconta una storia di un amico lontano migliaia di chilometri, improvvisamente trovatosi a contatto con una realtà che mai si sarebbe immaginato: quella guerra e quei tragici momenti di bombardamenti, fughe e sparatorie che credeva dover vedere solo nei suoi fumetti.
In entrambi i casi il protagonista della storia ci spiega come sia possibile che da un giorno all’altro, da un mese all’altro, ci si possa sentire stranieri a casa propria, come il condizionamento inflitto da poteri superiori porti, nel volgere di un battito di ciglia, i nostri vicini a non considerarci più esseri umani, porti gli uomini a massacrare bambini, vecchi e a creare campi di concentramento.
Maus somiglia incredibilmente ad un documentario, con un preciso taglio giornalistico, anche se in esso i protagonisti sono rappresentati come animali antropomorfi; l’incredibilità di quanto detto prima risiede proprio nel non avvertire questa trasposizione uomo/animale, più volte spiegata anche all’interno del libro stesso come espediente narrativo. Non ci troviamo infatti davanti ai (Mickey) “mouse” di disneyana memoria: la scelta dell’animale porta a caratterizzare i popoli in maniera precisa e decisa, e indubbiamente invisa a qualcuno, considerando che in una serie di librerie tedesche il volume è stato tolto dagli scaffali (così come altri fumetti) poiché censurato. Il vedere un ebreo travestirsi da polacco indossando una maschera da topo (con tanto di filo che la lega alla testa) non può che strappare un sorriso, e stimolare una successiva riflessione. Altro punto a favore dell’autore è sicuramente la scelta del bianco e nero: la letteratura ed i film sulla seconda guerra mondiale sono generalmente in bianco e nero, così come le foto dei lager e delle deportazioni, che abbiamo iniziato ad osservare sui libri già dai primi anni di scuola. In Italia, dove è, nonostante le recenti aperture, ancora marcata la differenza fra fumetto italiano e fumetto americano, ovvero fra b/n e colore, questo balza immediatamente all’occhio. Esiste pero’ una serie di pubblicazioni statunitensi, che spesso non attraversano l’Oceano Atlantico, in bianco e nero, che rifiutano i canoni ormai estremizzati dell’effetto speciale e della colorazione al computer per dedicarsi ad una ricerca personalizzata del tratto, della sfumatura e del tratteggio a matita, a china o con qualunque altro strumento si possa utilizzare. Parlando di realizzazioni in b/n ricordiamo, saltando al cinema, la mega produzione Schindler’s List di Steven Spielberg, che una manciata d’anni fa riportò in auge il tema dell’Olocausto. Ebbene, nella stessa epoca degli effetti speciali (anche tanto cari allo stesso Spielberg) che hanno permesso a Tom Hanks di recitare in un film stringendo la mano nientemeno che a J.F.Kennedy, l’autore trovo’ giusto realizzare il film in bianco e nero (aumentando così anche le spese di produzione – incredibile dictu!), adottando perlopiù tecniche di regia e movimenti di camera molto più rigidi rispetto ad una sua qualunque produzione precedente.
Dallo stesso punto di vista Fax from Sarajevo “somiglia” maggiormente ad un fumetto come siamo abituati a vederlo, leggerlo ed immaginarlo oggi: il colore ed i tratti conosciuti (e già amati) dell’autore spesso distraggono la mente, e riportano il tutto ad assomigliare pericolosamente ad un reportage giornalistico del giorno d’oggi (uno di quelli che ormai non suscitano la più piccola emozione in chi lo guarda). Se quindi si era parlato del primo volume come di un documentario d’epoca il secondo ci rimanda ad un collegamento televisivo con la CNN: i tempi sono cambiati, la guerra non è racconto di anziani, è cosa di tutti i giorni; i bambini la guardano in TV come fosse un cartoon, senza sapere (capire) che tutto avviene in terre vicinissime (che in parte fino a lustri fa erano Italia!).
In questo contesto artistico Maus fa pero’ riferimento ad un argomento che, seppur trattato in maniera strettamente originale, è noto a tutti: la letteratura sull’Olocausto, sui genocidi messi in atto dal terzo Reich ai danni degli ebrei, è un qualcosa di incredibilmente consistente. Negli anni passati dalla fine del conflitto, quasi settanta, migliaia di scritti, film, documentari ci hanno costantemente aggiornato su cosa era successo a cavallo della seconda guerra mondiale. Ultimo ci piace segnalare il libro di Daniel Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, che, oltre a spiegare come in pratica ogni strato sociale ed ogni tedesco all’epoca fosse coinvolto in prima persona ed abbia contribuito al genocidio ebraico, presenta documenti che erano rimasti incredibilmente inediti.
In entrambe le opere rintracciamo due scopi principali: il primo è l’educazione alla tolleranza; il secondo potremmo definirlo “culto della memoria”.
La tolleranza è incredibilmente scomparsa prima dell’inizio dei due conflitti trattati nei libri. La molla economica che li ha fatti scattare infatti si è travestita da intolleranza razziale. Per caso (o forse no) le origini di Joe Kubert e di Art Spiegelman, i due narratori, sono comuni: polacche. In entrambi i volumi si sottolinea come da un momento all’altro la follia intollerante si impadronisca delle piccole menti di gruppi di esaltati, non in grado di essere usati da “intelletti malvagi superiori”.
Non a caso, quando si tratta di dare ad esse un capo (le cittadine di Knin e Pale -ndr.) si cercano non politici ma psichiatri. Il dottor Jovan Reskovic diventa il capo dei serbi di Croazia, il dottor Radovan Karadzic dei serbi di Bosnia. Sono professionisti (…) che trasferiscono sul piano politico ed etnico il loro mandato clinico di “ripulire” la società dai diversi. Il resto del lavoro lo fanno i preti, spargendo la sindrome della guerra santa, ed i servizi segreti col ricatto. ((Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Ed. Editori Riuniti 1996))
Così come accaduto in Germania e narrato da Maus, a Sarajevo ed in Croazia la guerra è entrata sottopelle, scavandosi lo spazio adatto ed esplodendo, raccogliendo gli interessi economici di molti. Il passaggio da piccoli segnali d’avvertimento ai ghetti ed alle deportazioni è semplicemente identico nelle due storie: sembrava fosse soltanto un ridimensionamento dei propri diritti sociali, e si è trasformato in un incubo. La prima immagine forte in Fax from Sarajevo è una famiglia trucidata mentre cerca di andar via con la propria macchina, ed è analoga a quella fornitaci in Maus dal soldato che spara per divertimento agli ebrei. In breve in tutti e due i racconti si passa alla guerra vera e propria: in realtà le case espropriate, le terre espropriate, i soldi rubati ai deportati sono il vero fine della guerra, è quindi esplicito che l’intolleranza razziale non è in alcun modo causa di questi conflitti, come magari indicato nei vecchi sussidiari di tanti anni fa: per quel che riguarda il conflitto jugoslavo poi, come si giustificherebbe il fatto che Karadzic, sanguinario capo dei serbi, sia in realtà montenegrino? L’intolleranza resta solo un paravento, uno scudo adottato per coprire ciò che abbiamo detto prima. Già, proprio lo scudo ci dà lo spunto per collegare i due libri. In entrambi si sente e si vede la presenza di fumetti e proprio in Fax from Sarajevo fanno la loro apparizione usati proprio come scudo. In Maus un fumetto di Art sulla morte della madre turba il padre e comunque la narrazione è, come si direbbe oggi, the making of, ovvero il racconto di come il fumetto stesso sia stato realizzato. In Fax from Sarajevo, Ervin Rustemagic utilizza pacchi di fumetti come scudo all’interno della sua macchina per attutire eventuali colpi di arma da fuoco; inoltre dalla casa in fiamme distrutta dai bombardamenti riesce a salvare solo i soldi ed uno Yellow Kid (premio ottenuto negli anni precedenti) vinto a Lucca.
Nell’intrecciarsi di riferimenti vale la pena segnalare un fumetto realizzato dalla casa editrice americana DC distribuito gratuitamente nella ex-Jugoslavia nel quale Superman spiegava ai bambini come comportarsi nei luoghi probabilmente infestati da mine (( Superman: Deadly legay, Louise Simonson/Kieron Dwyer/ Dick Giordano, DC in collaborazione con Unicef.))
Ultimo appunto da riportare riguardo alla tolleranza è un dovuto accenno alla situazione italiana: sembra incredibile come si sia sviluppata, giusto di fianco a noi, una guerra con tali presupposti e contemporaneamente da noi si sia iniziato a parlare di parlamenti di Mantova, battesimi nel Po e a sbandierare differenze etniche improbabili, salvo poi spiegare che il vero problema che divide Nord e Sud Italia sono le tasse pagate (?) al Nord e distribuite (?) al Sud. Migliaia di morti in Jugoslavia non hanno insegnato nulla.
Parlavamo prima di “culto della memoria”: proprio questo è lo stimolo che porta alla realizzazione dei due libri. In tutto Maus vediamo l’autore che si ritrae atto a prendere appunti di quello che racconta il padre. La storia tragica della vita di Vladek Spiegelman si condensa nei quadernetti pieni di appunti di Art Spiegelman: allo stesso tempo, pero’, Art non smetterà di cercare i quaderni della madre Anja, che aveva sentito il bisogno di raccogliere, di annotare, di fissare su carta ciò che le era accaduto. I quaderni non si troveranno e gli appunti di Art li sostituiranno in pieno; vince in ogni caso la forte volontà di narrare per non far dimenticare.
Lo stesso vale per Joe Kubert, con un processo addirittura doppio. Erwin Rustemagic provvede, spinto dallo stesso bisogno della madre di Art, a raccontare a Joe Kubert quello che gli succede. I suoi fax pero’ sono prima scritti al computer, poi con la macchina da scrivere e poi a mano; sono l’indice dell’incedere della guerra civile ed avvicinano il mondo moderno e “civile” dei fax a quello di cinquant’anni fa, avvicinando i fax da Sarajevo ai quaderni di Anja Spiegelman. A questa volontà di raccontare si somma quella di Kubert, che sente di dover ri-narrare le vicende dell’amico affidandosi al mezzo che lo ha reso ricco e famoso.
Abbiamo parlato di:
Maus
Art Spiegelman
Traduzione di Cristina Previtali
Einaudi Editore
292 pagine, brossurato, bianco e nero – €20,00
ISBN 9788806202347
Fax da Sarajevo
Joe Kubert
Alessandro Editore, 1999
208 pagine, brossurato, colore – €29,99
ISBN 9788882850234
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