Gran parte degli scritti sul fumetto iniziano con il tentativo dell’autore di giustificare la dignità dello stesso quale mezzo di comunicazione. Come se, attraverso critici e saggi, il fumetto sia più impegnato a rivendicare questa ovvia collocazione paritaria (con cinema, letteratura, etc.) piuttosto che provare a raccontarsi e spiegarsi. Partiamo dalla stessa premessa anche in questa intervista?
Credo che il problema di legittimare culturalmente il fumetto appartenga soprattutto alle generazioni precedenti la mia. Io sono stato un baby-boomer, cioè una persona nata negli anni ’60 durante il boom economico, più o meno il periodo in cui veniva pubblicato Apocalittici e integrati di Umberto Eco. La generazione di Eco è stata quella che ha affrontato il problema di un rinnovamento delle gerarchie culturali che potesse conciliarsi con l’esperienza biografica. In altri termini, come racconta lo stesso Eco nel romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana, per molti versi un’opera autobiografica, una generazione che ha integrato con forza nella propria “educazione sentimentale” l’esperienza culturale ed emotiva dei comics non può poi, crescendo, abbracciare il punto di vista dei padri, le loro tassonomie estetiche e i loro interdetti verso ciò che non vi aderisce.
La mia generazione, invece, muovendo dagli spasmi identitari del ’68 e – soprattutto – del ’77, è andata oltre questo punto. Noi siamo, anche accademicamente, i figli di Eco, di Paolo Fabbri, di Alberto Abruzzese eccetera, ovvero di quegli intellettuali che hanno sgombrato il campo dai residui dell’estetica crociana come del pensiero apocalittico francofortese per interrogarsi laicamente, in un nuovo orizzonte ideologico, sul senso storico delle comunicazioni di massa e delle loro espressioni culturali. Quindi anche sul fumetto.
Oggi è sbagliato riflettere sui comics partendo dal tentativo di dimostrarne il valore culturale, perché essi – dopo Roy Lichtenstein o Andrea Pazienza – fanno già parte del nostro sistema culturale. Credo sia anzi sbagliato volerli innalzare sugli altari della cultura “ufficiale”, poiché quegli altari – come ho già sostenuto altrove – sono ormai dei sepolcri imbiancati. Pensiamo a quello che è successo in Italia al cinema quando è entrato nelle aule universitarie: allo sdoganamento accademico ha fatto seguito la morte del medium, che oggi nel nostro paese nei fatti non esiste più, è diventato fenomeno di nicchia e dal basso valore socioculturale.
Dovremmo invece rivendicare l’origine mercantile e massificata del fumetto, poiché è stata quell’origine a renderlo così forte, così capace di restituire lo spirito del tempo novecentesco, di rappresentarne i vissuti e le soggettività storiche. Partiamo da questo quando parliamo del fumetto, parliamo della sua origine metropolitana, parliamo del fatto che i comics sono un osservatorio privilegiato sulla storia culturale del secolo appena trascorso.
Da tempo cerchi di analizzare le peculiari caratteristiche del fumetto. Dopo tanti anni di ricerche e confronti con altri studiosi, quali pensi siano?
Le caratteristiche peculiari del fumetto sono per molti versi cambiate nel tempo, adeguandosi alla crescita di complessità dei processi della comunicazione. Io sono un sociologo, e sociologicamente potrei dire che il fumetto è un tipico medium audiovisivo di massa, la cui specificità consiste nel mettere in scena il corpo nella codificazione grafica del disegno e nella condizione culturale della riproducibilità tecnica. Si tratta di un linguaggio composito e perfino spurio nelle sue componenti, basato com’è sulla sinergia funzionale tra codice iconico e codice verbale, ovvero tra immagine e scrittura, ma che proprio in virtù di queste sue caratteristiche genetiche ha funzionato molto bene nella fase storica dei media di massa, contribuendo – come il cinema, il suo parente più prossimo, votato alle stesse finalità – a definire le forme della vita metropolitana. Al pari del linguaggio cinematografico, infatti, il fumetto recupera il piano di significazione dei sensi all’interno dei processi di comunicazione, restituendo centralità al corpo e alla sua espressione nelle dinamiche delle relazioni interumane.
Gli autori che hanno sfruttato al meglio questi caratteri germinali del fumetto sono stati molti. Nella fase aurorale del medium, come non ricordare il genio visionario di Winsor McCay, che si posiziona in una zona intermedia tra la messa a punto del linguaggio dei comics e quella del linguaggio cinematografico: ricordi che, oltre alla meravigliosa serie di Little Nemo, era anche autore di uno dei primi cartoon, il dinosauro Gertie?
Procedendo, invece, uno snodo successivo potrebbe essere individuato in Alex Raymond, ma più nella cinematograficità delle storie di Rip Kirby e Agente X-9 che in Flash Gordon, dove la ricerca di questo eccezionale narratore grafico si accentra più sulla necessità di tradurre il repertorio delle tradizionali arti figurative (la pittura, l’illustrazione) all’interno del nuovo medium. E’ certo, però, che ancor oggi, a oltre 70 anni dalla sua invenzione, lo spettacolo visivo di Flash Gordon mi procura brividi di piacere!
In Italia possiamo riconoscere tre diverse generazioni di critici del fumetto. Per fare qualche nome e semplificando senza voler fare torti a nessuno: quella di Eco, Oreste Del Buono; quella di Brancato, Daniele Barbieri e quella di Marco Pellitteri, Giuseppe Pollicelli. Attualmente sembra che gli studiosi/critici del fumetto in Italia siano in buon numero e di ottima qualità. Concordi?
Eco come Antonio Faeti o Roberto Giammanco, che non possiamo dimenticare, e lo stesso Oreste del Buono (forse l’unico tra questi che possiamo definire davvero critico dei fumetti più che studioso degli stessi) appartengono, in realtà, a generazioni precedenti ad Abruzzese.
Poi abbiamo la generazione di Gino Frezza, che credo sia lo studioso italiano che più ha scritto in relazione specifica ai comics.
Dopo veniamo Daniele Barbieri, (che in ogni caso, vorrei sottolinearlo, è più anziano di me…), Enrico Fornaroli, Daniele Brolli quando ne ha voglia, ed io, senza dimenticare Fausto Colombo.
A seguire abbiamo i più giovani Marco Pellitteri, Alessandro Di Nocera, Matteo Stefanelli, Fabio Gadducci, Gianluca Di Fratta… e certamente molti altri che ora dimentico.
Riguardo questo argomento, io curai nel 1995 una mostra all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, allora diretto da quel formidabile intellettuale che è Paolo Fabbri, proprio sugli studi italiani sul fumetto. I francesi, che pure sono i maggiori cultori di comics in Europa, rimasero molto colpiti dalla quantità e qualità delle opere esposte. Vorrei però fare una distinzione tra critici e studiosi, che non sempre coincidono.
In Italia abbiamo da anni un forte nucleo di critici specializzati del fumetto, in qualche misura analogo a quello dei critici cinematografici: da Gianni Brunoro a Ferruccio Giromini, da Giulio Cesare Cucciolini a Luca Raffaelli, da Oscar Cosulich a Luca Boschi, da Renato Pallavicini fino all’eclettico-enciclopedico Alfredo Castelli per citarne solo alcuni. Poi abbiamo l’esperienza accademica, di cui fanno parte i nomi che citavo prima, tutti in qualche misura collegati all’università italiana e a quegli insegnamenti che hanno affrontato il fumetto in maniera organica. Seguono gli outsider alla Giulio Giorello (filosofo della scienza) o alla Franco Restaino (storico della filosofia), accademici che si confrontano con una loro passione privata producendo, per lo più, opere magari molto pubblicizzate ma povere o perfino problematiche sul piano dei contenuti.
Infine abbiamo la straordinaria risorsa degli amatori, dei collezionisti, dei promotori di fanzine e di comunità virtuali nei domini della rete, anch’essi spesso in possesso di grandi livelli sapienziali. Si tratta, tuttavia, di competenze e profili culturali tra loro differenti: potremmo dire di diversi mestieri che individuano, nell’ambito del medesimo orizzonte d’interesse, punti di vista e obiettivi non collimanti. Tutti sono dotati di eguale dignità, ma le storie e le finalità restano diverse. Più che differenze generazionali, in qualche modo già affrontate nella prima risposta, parlerei quindi di differenze professionali. Che, nell’insieme, mi appaiono spesso di ottimo livello.
Come deve prepararsi un aspirante critico di fumetti? E, prima ancora, chi è il “critico di fumetti”?
Dipende da quali obiettivi si pone. La critica ha necessità di luoghi in cui poter essere esercitata. Una volta esistevano le riviste, per questo, mentre oggi la risorsa principale mi appare sempre di più il web. Solo che con il web è difficile vivere professionalmente. I giornalisti che scrivono per i giornali sono molto pochi, quindi la critica diventa sempre più, oggi, un esercizio amatoriale. Attenzione: non dilettantistico, ma amatoriale nel senso di motivato passionalmente, di un desiderio di interazione con la comunità di riferimento.
Credo nell’attuale fase di ridefinizione delle culture dei media, il fumetto richieda una figura di critico in grado di operare anche su altri piani, per esempio nella formazione degli autori oppure nella direzione editoriale delle case editrici, in specie di quelle piccole ma altamente qualitative che stanno trasformando il panorama dei comics in Italia. La preparazione è quindi un aspetto importante, e ci sono tutte le condizioni per potersi attrezzare culturalmente in maniera aggiornata e ricca attingendo alla letteratura scientifica sul fumetto, una letteratura che – per esempio – negli anni ’70, quando cominciavo a coltivare lo studio delle mie passioni, non era nemmeno lontanamente così cospicua e diversificata. Poi gli autori si lamenteranno sempre per come sono trattati: per questo Vincenzo Mollica è in genere così apprezzato dai comic-maker, parla bene di chiunque. Sebbene questo significhi che alla fine non parla mai davvero di fumetto.
Quali testi consigli per una persona che ha una conoscenza superficiale del fumetto e vuole iniziare ad approfondire, a comprenderne le caratteristiche, a leggerne le stratificazioni?
La letteratura scientifica sui comics, come dicevo prima, è oggi molto più ricca e completa che in passato. Ne ricostruisco il percorso in un saggio contenuto in un mio libro del 2000, Sociologie dell’immaginario, edito da Carocci. Direi che il problema più grande è oggi costituito dalla mancanza di una affidabile storia del fumetto, visto che le opere più recenti (Restaino, Guerrero, Favari ecc.) non mi soddisfano molto. In quel senso, continuerei a suggerire la lettura del vecchio Strazzulla, Fumetti di ieri e di oggi, edito negli ann ’70 da Cappelli. Poi ci sono i testi degli autori che abbiamo citato nell’intervista: Eco (un po’ datato), Abruzzese (un po’ laterale), Faeti, Frezza, Barbieri, Colombo, ovviamente io. Più Eisner, che è sempre un piacere.
La tua spiegazione del perché non si riesca a pubblicare in Italia una rivista periodica cartacea di critica sul fumetto organica, composita e strutturata?
Perché il periodo delle riviste di fumetto che pubblicano comics e articoli, saggi, recensioni ecc. è finito, non c’è più un pubblico che possa sostenerne le condizioni economiche e culturali. Pensiamo all’esperienza di un oggetto davvero notevole come la rivista Mano. Ma sta mutando tutto il rapporto con il consumo culturale, e il motivo è la rete. Poi ci sono i casi eccezionali, ad esempio quell’ottima rivista di studi sul manga di Gianluca Di Fratta, Manga Academica, oppure di Signs – Studies in graphic narratives, un’iniziativa di Gadducci e Stefanelli pubblicata però direttamente in inglese. Ma sono casi isolati, oggi la critica – come ormai la stessa realizzazione dei comics – ha luogo soprattutto nei territori del web.
Quali sono gli autori di fumetto che da giovane hanno catturato la tua fantasia, di pancia, oserei dire? E quelli che nella tua maturità hai potuto conoscere e apprezzare con spirito più critico e meno visceralmente?
Il mio rapporto con i comics comincia molto presto, in età prealfabetica, ed è ad essi che devo il fatto di aver cominciato a leggere e scrivere molto presto, addirittura prima dei 5 anni. Questo in risposta a chi diceva, una volta, che i fumetti fanno male. Dunque non ricordo esattamente quali siano stati i primi autori a colpirmi. La trafila, comunque, è quella solita: i disneyani, in primo luogo, soprattutto gli italiani e Carl Barks; poi il trio Sartoris, Guzzon e Sinchetto, con Capitan Miki e soprattutto il Grande Blek. Come dimenticare Roberto Renzi, di cui all’epoca ignoravo il nome, ma realizzava il surreale Tiramolla così come Akim, un Tarzan nazional-popolare, per i disegni di Augusto Pedrazza. Idem per Antonio Terenghi con Pedrito el Drito, di cui ricordo ancora qualche battuta, tipo il personaggio – apparso in una sola vignetta – che si chiamava Stupid Stupid detto Stupid.
Poi le cose hanno cominciato a definirsi, ho associato storie e stili ai loro autori, partendo dal genio avanguardista di Benito Jacovitti e dall’iconicità cinematografica del Tex di Bonelli e Gallepini per arrivare alla paradossalità grafica del Magnus di Kriminal, oppure alla potenza figurativa con cui Lecureux e Chére inscenavano la preistoria immaginaria di Rahan sulle pagine de Il Monello, o ancora all’epico dinamismo traslucido di Jack Kirby. Né posso sottovalutare l’influenza del fumetto erotico italiano, che mi ha aperto scenari di immaginazione che nemmeno sospettavo e svelato finalmente il corpo della donna, fin lì interdetto dall’ipocrisia cattolica del fumetto per ragazzi.
Tuttavia, confesso che rimpiango l’infanzia e il rapporto nebuloso che avevo con i comics, e che proprio per la sua vaghezza mi riempiva ogni volta di stupore: aprire le pagine di un albo era ogni volta come rompere l’uovo di pasqua, promessa di meravigliose sorprese. Quando qualche autore, dopo, mi ha restituito un’emozione paragonabile a quella, l’ho amato visceralmente: il Corben di Den, il Pratt del primo Corto Maltese, il Micheluzzi di Petra Chérie e Marcel Labrume, il Moebius di Arzach e del Garage Ermetico di Jerry Cornelius, il Giardino di Max Fridman e Otto Fink, Andrea Pazienza in generale.
E’ possibile valutare la qualità di un nuovo lavoro a fumetti prescindendo (o ridimensionandola) dalla valutazione sul potenziale innovativo che esso porta? Un’opera nuova è valida anche se utilizza un linguaggio fumettistico non specificamente innovativo?
L’innovazione non risiede solo negli autori, essa assume significato nel momento in cui si rispecchia nella sensibilità dei lettori/spettatori. Per questo motivo, la storia di tutti i media – fumetto compreso – è essenzialmente storia della loro incessante innovazione. Questo è evidente se pensiamo al cinema o alla tv. Ma anche il fumetto non ha mai cessato di innovarsi nel tempo, assumendo forme nuove, nuove tecnologie, nuove soluzioni linguistiche. Occorre interrogarsi su cosa sia la ricerca del nuovo. Will Eisner ha innovato profondamente il fumetto in almeno due età della sua lunga vita: una prima volta con l’ironia seriale di Spirit, una seconda con la dimensione narrativa del graphic novel. Ma anche in Contratto con Dio, Eisner conserva il proprio repertorio tradizionale di segni e linguaggio, eppure stiamo parlando di un’opera che per molti è lo spartiacque tra due distinte epoche del fumetto. Ancora: in serie come Tom Strong o La lega degli straordinari gentlemen, Alan Moore mette in scena l’immaginario dei pulps-magazine d’inizio ‘900 e addirittura dello scientific romance ottocentesco, eppure si tratta di storie che non possiamo non definire innovative. Credo, in definitiva, che l’età postmoderna o tardo-moderna, chiamiamola come si vuole, sia caratterizzata dal problema del rapporto con l’innovazione, ma che questo problema sia più sottile di quanto si pensi.
Il panorama editoriale fumettistico italiano offre al lettore volenteroso innumerevoli tipi di fumetti (autoctoni e d’importazione). Con un budget limitato cosa ti sentiresti di mettere in un paniere della spesa quanto più completo possibile?
Dipende da che cosa uno si ritrova già in casa. Come sei messo con i classici? Sei per il fumetto seriale o per quello d’autore (va da sé che quando sento ancora questa distinzione metto mano alla pistola…)? Quanto ti interessano le novità? Comunque, il percorso è sempre molto personale. Posso dirti che io, dopo anni di lavoro teorico sul medium disegnato, ho la fortuna di essere spesso omaggiato di libri a fumetti, e questa sorta di lotteria casuale mi permette di incontrare spesso delle novità molto interessanti. Ho scoperto così Gipi, per esempio, che mi piace molto e che potrebbe diventare un autore molto importante.
Devo dire che oggi rivolgo la mia attenzione soprattutto alle attività editoriali emergenti, specie se piccole o medie, che sono più vicine al cuore pulsante della cultura del fumetto contemporaneo. Amo molto le cose di Tunué, una casa editrice piccola ma in crescita dinamica, creata da ragazzi che ho incrociato in passato a Roma, quando insegnavo alla Sapienza e loro erano studenti. Ma l’elenco sarebbe lungo: la Magic Press, ad esempio, si segnala da circa quindici anni per la capacità di anticipare i trend del grande fumetto americano, ed ha portato in Italia delle cose fantastiche. Comma 22 è forse quella che costruisce il proprio catalogo con maggiore consapevolezza e cultura della storia del fumetto, grazie soprattutto all’intelligenza di Daniele Brolli, che mi ha anche coinvolto nel suo progetto affidandomi la direzione della collana dedicata alle opere del grande Attilio Micheluzzi. Nicola Pesce Editore ristampa cose fantastiche e ormai dimenticate, salvando dall’oblio autori come Paolo Ongaro o Lino Landolfi. Ma insomma, con un po’ di soldi qualcosa si può fare, anche se oggi il fumetto è un oggetto da libreria ed ha ormai perso, a parte la produzione bonelliana, l’economicità tipica del consumo di massa. Perfino le collane che escono in edicola in abbinamento a quotidiani e settimanali, sebbene più accessibili, non scendono mai sotto i 10 euro di spesa per volume.
Nel tuo ultimo libro (Il secolo del fumetto – Lo spettacolo a strisce nella società italiana 1908-2008, a cura di Sergio Brancato – Tunué – 14,80€) un capitolo è dedicato al fumetto a scuola. La scarsissima attenzione data dalla scuola al fumetto è causa (o meglio, una delle) della difficoltà di penetrazione dello stesso fra i giovani?
Anzi, il contrario! Il fumetto è stato per generazioni un atto di disobbedienza civile. Tutti ci dicevano che faceva male, che erano stupidate, che perdevamo tempo invece di studiare. Ovviamente, poi, io mi sono laureato con Abruzzese, in filosofia, con una tesi sul superuomo nella società di massa in cui parlavo molto del fumetto. E da allora non ho smesso di trovare, nei comics, suggestioni e interrogativi di grande pregnanza sociologica. No, non credo che portare il fumetto nelle scuole porterebbe grandi vantaggi, finirebbe per diventare come la Divina Commedia, un’opera bellissima ed entusiasmante che abbiamo davvero scoperto, da soli, dopo che aveva finito di essere un obbligo didattico. E poi, chi dovrebbe insegnarlo? Chi ha le competenze per farlo? No, si rischia di peggiorare la situazione.
Se oggi il fumetto vede erodersi il proprio bacino d’utenza, se le nuove generazioni non lo consumano più in massa è per altri motivi. I comics sono stati messi in crisi dal rimodellamento del sistema dei media nel suo insieme, dalla concorrenza di altri dispositivi dell’immaginario. Ma questo è naturale, fa parte del gioco della storia, non ci deve scandalizzare. D’altra parte, così come è stato per la letteratura, il fumetto riemerge in nuove forme, ad esempio come laboratorio sperimentale sottostante l’evoluzione del cinema e degli audiovisivi in generale. Oppure, come sostiene Daniele Panebarco, leggendario comic-maker degli anni ’70, introducendo nella cultura di massa quella modalità di racconto ipertestuale, basata sul costante rimando tra diversi codici di comunicazione, che è alla base dei linguaggi digitali. In altri termini, senza la preesistenza del fumetto, difficilmente si sarebbero sviluppate le forme di comunicazione attualmente in voga presso i giovani. E questo può anche consolarci per il fatto che i comics siano oggi, per i giovani, un consumo di nicchia.
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