Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento del Prof. Sergio Brancato in occasione della presentazione di Romics 2010.
Intervento rimasto inedito vista la mancata presenza dell’autore all’evento.
Le trasformazioni del sistema dei media hanno investito negli ultimi anni anche il fumetto, mutandone statuti espressivi e modelli comunicativi, fino a realizzare una sostanziale riorganizzazione dei suoi processi produttivi e delle culture del suo consumo. Si è spesso sostenuta, a riguardo, la tesi di una crisi epocale del medium disegnato, così profonda da farne paventare la scomparsa nell’ambito più generale dei processi di riconversione dal sistema dei mezzi di comunicazione di massa alle dinamiche di media convergence. Sebbene riposizionati nell’economia della comunicazione, tuttavia, i comics continuano a essere parte integrante e significativa della dieta mediatica. Ma cambiano in maniera molto profonda. Una delle innovazioni più rilevanti – diretta conseguenza di quel processo di de-massificazione che oggi investe tecnologie della comunicazione e società – è costituita dall’avvento del graphic novel, una modalità di produzione e consumo sostanzialmente non-seriale. Il graphic novel è un oggetto assai interessante dal punto di vista mediologico, poiché interpreta, all’interno di una singola forma espressiva, l’insieme dei processi di trasformazione in atto nel sistema della comunicazione.
Questo oggetto, tuttavia, non è privo di ambiguità, a partire dalla relativa adeguatezza della definizione di romanzo grafico, che riprende il significato del termine inglese novel ma tende a estenderlo, impropriamente, anche al piano delle narrazioni fantastiche (particolarmente presenti nell’economia del medium, basti pensare all’epica supereroica), ovvero in relazione a una forma che dovremmo invece definire come graphic romance, riprendendo quindi la convenzionale distinzione tra novel e romance maturata nell’ambito della tradizione anglosassone degli studi letterari. Il graphic novel, in ogni caso, segnala una profonda trasformazione intervenuta nelle matrici seriali, dunque tipicamente industriali, del fumetto. L’argomento di questo contributo si fonda esattamente sull’idea di un superamento paradigmatico delle tradizionali relazioni tra cultura e industrializzazione, i cui segni possono essere reperiti, in maniera efficace, anche nei nuovi approcci alle narrazioni del fumetto.
Si può affermare che il graphic novel superi gli assetti e le strategie del fumetto seriale, quello a cui siamo prioritariamente abituati e che rimanda alle convenzioni, linguistiche ed espressive, acquisite e messe a punto in via definitiva intorno agli anni ’30 del secolo scorso. Il medium disegnato identifica così nuove piattaforme di fruizione per le proprie pratiche, inediti modi di “raccontarsi”, di allestire narrazioni in grado di intercettare le rinnovate competenze di un pubblico ipersegmentato. Sulla scorta del lavoro per molti versi originario di autori come Will Eisner o Hugo Pratt, a loro modo “pionieri” di un superamento delle logiche seriali dei comics (nonostante essi provenissero proprio da quella cultura del medium), si affermano attualmente nuovi generi narrativi per una scena del fumetto caratterizzata da una formidabile mobilità strutturale. Tra questi generi spicca il racconto autobiografico, sempre più diffuso, soprattutto tra gli autori emergenti, e molto gradito dal pubblico.
In definitiva, da un modello di serialità che accompagna i vissuti quotidiani attraverso la messa a punto di un’estetica della standardizzazione, si passa a una resa dei vissuti attraverso un processo di individualizzazione dei piani narrativi che potremmo davvero definire di natura post-seriale.
Il racconto autobiografico si lega alla vocazione storiografica del fumetto, generando fenomeni di grande successo – come testimoniano graphic novel quali Persepolis (2000-2003) di Marjane Satrapi, autentico caso “letterario” degli ultimi anni, o graphic novelization come Valzer con Bashir (2008): due testi audiovisivi accomunati dall’appartenenza a un’idea di narrazione del “confine”.
Nel caso della Satrapi come in quello di Ari Folman e David Polonsky, siamo al cospetto di operazioni che implicano il confronto tra differenti culture sia sul piano dell’identità nazionale (la Satrapi sospesa sulla soglia tra mondo islamico e mondo cristiano-europeo; Folman interprete dell’intima lacerazione del mondo ebraico nel contesto del conflitto israelo/palestinese) che su quello dell’identità generazionale (in entrambi i casi siamo nel mezzo di una frattura epocale dai caratteri catastrofici). A questi aspetti narrativi molto forti, possiamo inoltre aggiungere l’ulteriore sospensione dell’autrice persiana sulle modalità espressive di un linguaggio – il fumetto – che non le appartiene e che dunque deve essere da lei continuamente scoperto e reinventato per riuscire a funzionare sul confine tra invenzione grafica e scrittura; ma anche la sospensione di Folman e del disegnatore Polonsky tra codici analogici e digitali, media industriali e post-industriali, cinema di animazione e fumetto accomunati in una drammatizzazione quasi iperrealista.
Questo è un punto centrale dei comics post-seriali: oggi il cartoon e il fumetto si configurano, in Valzer con Bashir o in Persepolis, come una piattaforma espressiva del tutto realistica, forse quella in grado di “disegnare” meglio il portato emotivo del presente storico. Che si tratti del massacro di Sabra e Chatila o della condizione della donna nell’odierno Iran. Si tratta di dinamiche assai interessanti poiché aprono il campo a un’idea dell’autobiografia a fumetti come terapia necessaria per la rappresentazione sociale del Sé.
L’autobiografia diventa, in questi termini, testimonianza generazionale di un’esperienza storica, ma anche dei modi in cui essa, attraverso la produzione del Sé, è stata metabolizzata negli assetti politici e tecnologici del sistema dei media.
La lettura delle storie di Andrea Pazienza, a questo punto, non può più limitarsi al riconoscimento delle qualità artistiche di un grande autore che ha dato voce e immagini a una fase critica del ‘900, quella della closure dei movimenti degli anni ’60 nel corso del decennio successivo. C’è qualcosa di più che di solito non emerge nella riflessione dei critici specializzati. Nel suo autobiografismo “mimetico”, Pazienza include e segnala lo spostamento del sistema della comunicazione verso nuove dimensioni operative della tecnologia e, dunque, di una riconsiderazione profonda dell’identità generazionale.
Simile a un’avanguardista della cultura di massa, Pazienza devasta con i suoi comportamenti estremi le tradizionali culture del fumetto. Il suo disprezzo per la puntualità nel consegnare le storie agli editori (cardine della serialità), l’uso di materiali e tecniche spurie (invece del cartoncino bristol, a volte usava pagine di quaderno a quadretti oppure carta da pacchi), la violazione sistematica delle regole di composizione della tavola e della correttezza formale della lingua, ma soprattutto il mettere in scena, sebbene spesso in maniera traslata, gli episodi della propria vita, fanno di questo comic-maker il vero grande anticipatore delle tendenze autobiografiche del fumetto attuale. Perfino nel gioco costante con la menzogna, l’autobiografia è la vera dimensione espressiva, l’autentica cifra stilistica di Pazienza, che restituisce lo spirito del proprio tempo con una qualità grafica rivoluzionaria e una sapienza nella destrutturazione della lingua che non ha eguali tra i narratori della sua generazione.
La scelta “disordinante” di Pazienza, tuttavia, va soprattutto ricondotta al fatto che il fumetto, negli anni ’70, stava mutando geneticamente per far fronte ai nuovi assetti del sistema mediale: in altri termini, la pagina stampata dei vecchi comics non riusciva più a contenere l’immaginario dei propri lettori, e doveva attrezzarsi per comunicare in una prospettiva non amatoriale o nostalgica. Per poter continuare a “dirsi”. Nella dimensione autobiografica di Pazienza appare chiara la natura costitutiva dei comics come schemi di interazione sociale. La testualità ibrida del fumetto assume, nell’autore pugliese, un’estrema chiarezza nel disegnare i termini del conflitto in atto tra culture mediali divergenti. L’opera di Pazienza permette di comprendere anche il motivo del successo dell’autobiografia nei comics, esattamente nella misura in cui rimette in gioco l’idea di soggettività storica nelle pratiche della comunicazione. Il Sé autobiografico che cogliamo in trasparenza nelle grottesche drammaturgie di Pazienza si manifesta ai nostri occhi come l’indicatore sociale del mutamento: il fumetto è un habitat linguistico che comincia, nel crepuscolo del ‘900, a trovare nuovi abitanti, inedite aggregazioni comunitarie fondate su condivisioni diverse da quelle del passato. In questi termini, l’autobiografia non appare più come un nuovo genere del fumetto: essa definisce invece i termini del rinnovato rapporto tra pubblico e comics, rivelando la funzione attuale del medium disegnato.
Il connubio tra narrazione autobiografica e fumetto, lungi dal costituire una semplice strategia editoriale, restituisce quindi il significato profondo di un vasto processo di trasformazione, rendendo questo linguaggio uno dei luoghi in cui si sperimentano le nuove pratiche della comunicazione. Un altro importante comic-maker che ha spostato la sensibilità del medium disegnato verso i territori dell’autobiografia è lo statunitense Art Spiegelman, che tra il 1973 e il 1991 ha pubblicato un importante graphic novel intitolato Maus, in cui narra le vicende di Vladek Spiegelman, suo padre, un ebreo polacco sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.
La storia di Maus è, tuttavia, una vera autobiografia, poiché nel fumetto egli si mette in immagine per narrare il rapporto conflittuale tra genitore e figlio: attraverso il linguaggio sequenziale del disegno, Spiegelman effettua una ricerca nella memoria del padre e nella propria, alla ricerca di un senso nel rapporto tra individuo e Storia. Il tema della memoria in riferimento alla Shoa è presente nel fumetto anche in altre opere, che sottolineano la relazione fondante tra storiografia e generi narrativi. Pensiamo a un graphic novel di Joe Kubert, storico autore del fumetto americano, star dell’immaginario supereroico. Kubert arriva neonato a New York nel 1926, figlio – come Spiegelman – di ebrei polacchi. Dopo una vita trascorsa a illustrare le avventure dei fumetti seriali, sperimentando perfino le possibilità dei comics in 3-D, si dedica con successo al graphic novel, prediligendo trame e ambientazioni storiche assai curate. Con Yossel, pubblicato nel 2003, Kubert compie un’operazione straordinariamente interessante: utilizzando la memoria dei suoi genitori, scappati dalla Polonia per evitare i pogrom, costruisce la propria autobiografia immaginaria, basata sul semplice presupposto di interrogarsi su cosa sarebbe accaduto qualora i suoi non fossero emigrati in America, decidendo invece di restare.
Di qui prende l’avvio un racconto struggente, l’autobiografia fittizia e – insieme – assolutamente “autentica” del giovane Yossel, doppio ucronico di Joseph, promettente disegnatore che affronta la terribile esperienza dell’assedio del Ghetto di Varsavia proprio fissando a matita le immagini di ciò che gli accade intorno: l’assalto militare, la fame e il freddo, la violenza estrema e insensata, la resistenza disperata all’invasore. Un sentimento di fatalità pervade questa biografia “alternativa”: per Kubert ricostruire ciò che sarebbe successo se i suoi non l’avessero salvato, portandolo in un altro mondo, è un modo per risarcire chi non ebbe la medesima fortuna, ma è anche un modo per fare i conti da sopravvissuto al problema etico e psicologico dell’Olocausto. Con un certo pudore, infatti, l’autore racconta che, mentre Hitler invadeva la Polonia, lui già guadagnava i primi dollari disegnando comics. Al sicuro in un altro mondo, dove tutto appariva piuttosto lontano. Sebbene inventata, l’autobiografia di Yossel coincide con la memoria e l’esistenza di Joe Kubert, è parte indissolubile dalla costruzione dell’identità, individuale e collettiva, del grande comic-maker ebreo.
Ultimo esempio di fumetto autobiografico, nel quadro di una riflessione che potrebbe prevederne molti altri, è il romanzo grafico di Nikolaj Maslow, Siberia (2004), sul nesso tra memoria e identità, uno dei grandi temi della sociologia contemporanea. Maslow è un autore russo che giunge al fumetto dopo un lungo e tortuoso percorso di vita all’insegna del declino dell’Unione Sovietica. Nato nel 1953, trascorre la giovinezza nella Siberia occidentale, in una regione fatta di immense distese innevate e di città senza nome, sognando la vita metropolitana e l’Occidente. Per evadere da una ristretta condizione esistenziale, individua due strade: il disegno, che comincia a coltivare con passione e gli permette di sperimentare il risarcimento simbolico dell’immaginazione, e l’arruolamento nell’esercito, che lo porta a viaggiare nelle zone calde dei conflitti interni all’Urss. L’arrivo a Mosca e lo studio della pittura non risolvono le angosce del rappresentante di una generazione alle prese con il processo di de-sovietizzazione in atto. Il ritorno alla Siberia della fanciullezza costituisce un’ulteriore disillusione, il gravare di un sentimento del tempo da cui il futuro è stato espunto. Per Maslow, il fumetto diventa quindi la terapia di un soggetto – individuale e collettivo – che non ha molti altri mezzi per riconsiderare se stesso. Casualmente, grazie al sostegno di un libraio francese a Mosca, il narratore russo ha avuto la possibilità di terminare il proprio libro di memorie, e anche di pubblicarlo in alcuni paesi europei. Come nel caso di Spiegelman, della Satrapi o di Folman, l’autobiografia ricostruita attraverso la sinergia iconico-verbale del fumetto permette un approccio autoriflessivo ai grandi eventi della storia recente, fornendone una sorta di “storiografia passionale” non priva di suggestioni teoriche, oltre che di un innegabile effetto drammaturgico.
L’autobiografia diventa oggi, in definitiva, l’elemento di attrazione e agglutinamento culturale che permette di tenere in piedi il rapporto con il pubblico al di fuori della consueta organizzazione della serialità industriale. Il suo affermarsi dimostra quanto sia cambiato e stia cambiando, rapidamente e in profondità, il mondo delle forme comunicative del fumetto, spingendo molti autori a farne la propria cifra stilistica: si pensi all’italiano Gipi e ai suoi graphic novel, in particolare LMVDM – La mia vita disegnata male (2008), specie di manifesto teorico-poetico dell’estetica autobiografica. Oppure al giapponese Takao Yaguchi, che in Tezuka secondo me (1994) racconta con tenerezza e orientale deferenza il proprio rapporto a distanza con l’opera magistrale del grande mangaka Osamu Tezuka, giustamente considerato il Disney nipponico, sancendone allo stesso tempo il definitivo superamento storico.
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