Il novembre del 1961 è la data che marca la distanza tra due distinte epoche del fumetto e delle stesse comunicazioni di massa, tracciando un confine piuttosto netto nel corpo del medium disegnato. Non si tratta tanto del pieno consolidarsi di quel transito dalla cosiddetta Golden Age (anni ’30-’40) alla Silver Age (anni ’50-’60) del pantheon supereroico, ormai convenzionalmente accettato dagli storici dei comics e corrispondente a due differenti epoche dell’organizzazione sociale.
Con il primo numero di Fantastic Four comincia, in senso lato, il percorso della Marvel quale laboratorio ideativo che caratterizza gli anni ’60, un laboratorio dell’immaginario che riallaccia le culture dei comics a quelle più generali della comunicazione. Una piccola casa editrice che si affida a talenti – per lo più non giovanissimi (sia Stan Lee che Jack Kirby, ad esempio, sono già professionisti attivi e affermati) ma certamente capaci di captare lo spirito del tempo – al fine avviare una autentica rivoluzione culturale nel mondo del fumetto.
Un quinquennio prima, è vero, sul versante della Dc Comics era partita un’importante operazione di riscrittura dell’epica supereroica. A opera di Julius Schwarz e Carmine Infantino, quella che al tempo era la più nota e importante fabbrica editoriale dei supereroi aveva rilanciato gli eroi dell’età d’oro partendo dal nuovo Flash, ridisegnando letteralmente il vecchio personaggio dell’età bellica.
E’ quanto faranno anche i creativi della Marvel, ma spingendosi molto più in là sul piano del design: a essere riformulata, infatti, non sarà solo l’estetica dei supereroi, ma la loro stessa consistenza seriale. In altri termini, a partire dai Fantastici 4 le tradizionali modalità narrative dei fumetti di supereroi vengono stravolte, approdando dalla episodicità autoconclusiva (analizzata da Umberto Eco nel suo saggio su Superman) tipica della Dc Comics (e di una lunga stagione dell’industria culturale nel suo insieme) alla continuity che caratterizzerà la Marvel, rendendola più vicina ai vissuti del pubblico e più aderente ai nuovi profili della comunicazione televisiva, traducendo così il Mito nella Storia.
Gli anni ’60 segnano il passaggio dall’età di Eisenhower, in cui – grazie all’ondata impetuosa dell’economia post-bellica – ebbe luogo la massima crescita nella storia dei consumi di massa, all’età di Kennedy, che – sebbene ricordata soprattutto per la rinnovata spinta morale contro le politiche di discriminazione razziale – va interpretata soprattutto come il momento storico che segna il riorganizzarsi della comunicazione sociale intorno al medium televisivo.
La Marvel coglie questa sensibilità emergente, appropriandosi dei linguaggi giovanili così come delle nuove inquietudini collegate al riassetto della società nel suo insieme. Sono gli anni in cui le forme convenzionali dell’individualismo moderno vengono sottoposte all’azione di una molteplicità di filosofie e inedite visioni del rapporto tra soggetto e comunità. L’archetipo dell’eroe è gradualmente riscritto da nuove narrazioni organiche ai nuovi media che si affermano sulla scena dei consumi culturali. Non a caso, l’apertura del decennio è siglata dalla dimensione ideologica del “gruppo”: dai Fantastic Four marveliani ai Fabulous Four della musica pop.
Il nesso tra i Fantastici 4 ed i Beatles non è né casuale, né astruso. I nuovi volti dell’individualismo nella società complessa si basano, in ogni campo, su un rinnovato concetto di integrazione reciproca tra soggettività complementari. Dal simbolismo del supereroe come individuo radicale, capace di affrontare da solo ogni avversità e “porvi rimedio” attraverso l’azione violenta del corpo eroico e della sua visione del mondo, si passa alla conflittuale interazione sistemica dei gruppi, alla qualità dialettica della loro stessa composizione, alla loro evidenziazione delle pratiche diffuse di dissenso e rielaborazione dell’ideale di sovranità.
Si apre una nuova età del superomismo nell’economia globale dell’immaginario. La logica del “supergruppo” nasce davvero con i Fantastic Four poiché essi sono strutturalmente concepiti per rispondere alle trasformazioni in atto nella società. Non è un caso che Ang Lee utilizzi proprio un albo dei Fantastici 4 per aprire la narrazione di Tempesta di ghiaccio, film del 1997 tratto da un romanzo di Rick Moody, in cui il tema conduttore è proprio la crisi della famiglia e la trasformazione dei modelli di comportamento nel quadro storico dell’America dopo i fermenti del 1968.
Ma prima di arrivare a quegli anni di rapida diversificazione della produzione Marvel (che, ricordiamolo, sono caratterizzati dalla fine del sodalizio tra Kirby e la “casa delle idee”, e poi dalla sostituzione di Stan Lee al comando del reparto scrittura) occorre analizzare la fase germinale ed esplosiva della serie, tentando di individuare i nessi tra le storie dei Fantastici 4 e il contesto in cui si affermava il loro consumo da parte del pubblico.
Un pubblico che aveva ancora caratteri e dimensioni di massa, ma che ridisegnava i propri profili intorno a una nuova egemonia mediatica: quella della televisione. In tutto l’Occidente, gli anni ’60 sono definiti dal consolidamento delle economie intorno alle dinamiche di un consumo sostanzialmente stabile e in crescita. Nel campo della comunicazione si verificano le condizioni per uno spostamento dalla centralità del cinema nella costruzione dei sistemi simbolici industriali a quella di un medium che risponde meglio ai nuovi bisogni. La televisione, con il suo effetto di ri-territorializzazione che sposta decisamente i consumi culturali dall’esterno all’interno della dimora (dunque dallo spazio pubblico allo spazio privato), segna il discrimine tra due differenti età della società di massa e della sua forma metropolitana.
I Fantastici 4 costituiscono il testo che porta questa nuova condizione nell’ambito narrativo del fumetto. E’ per questo che incontrano subito il favore del pubblico, soprattutto giovanile, e cominciano a funzionare come laboratorio sperimentale per tutta la successiva produzione Marvel, che vedrà nel giro di pochissimi anni la proliferazione senza precedenti di personaggi e serie di enorme successo e innovatività. Lo stesso Lee sostiene che in quegli anni qualsiasi cosa si producesse in Marvel funzionava immediatamente sul mercato, in una sorta di automatismo virtuoso e – in realtà – solo apparentemente “inconsapevole”.
Ma tutto nasce con l’intuizione, oggi da molti ascritta anche narrativamente al talento visionario di Jack Kirby, di questa vera e propria famiglia di supereroi, assemblata in modo da restituire uno spaccato della società industriale alle prese con i primi segnali della insostenibilità dei modelli di sviluppo.
La dimensione del conflitto tra individuo e massa (o fra tradizione e modernità), che convenzionalmente era stata resa implicita nella schizofrenia fisiologica del supereroe classico (basti pensare alla ricorrenza del tema della doppia identità), dai Fantastic Four in avanti si trasferisce nell’interazione tra le differenti soggettività dei gruppi. Non a caso, a soli due anni di distanza nasce l’altra grande èquipe Marvel, gli X-Men, che tuttavia riscuoteranno i loro maggiori successi solo nel decennio successivo, quando porteranno a compimento il processo – avviato dai Fantastici 4 – di riallineamento tra immaginario dei supereroi e società.
Nel mondo della televisione, del rock’n’roll, dell’equilibrio nucleare tra blocchi, il modello familistico dei Fantastic Four serve proprio a riconnettere il corpo del fumetto al proprio consumo. A partire dalla meccanica della propria genesi: nelle prime tavole del numero 1, infatti, vediamo tutto aver inizio da un atto di insubordinazione, quando Reed Richards ed i suoi amici si ribellano al conservatorismo delle alte sfere militari – fino ad allora vere e inviolabili “icone della legge” nei codici della cultura americana – per rubare un razzo e affrontare la sfida dello spazio, altro topos degli anni ’60 culminata otto anni dopo dalla narrazione televisiva dell’allunaggio.
La fuga verso la conoscenza – che caratterizza le controculture statunitensi fin dal decennio precedente – ha luogo nei termini di una ribellione contro il sistema, tematica che riveste un grande appeal per quelle generazioni che individuavano nell’eversività basica di Marlon Brando o Elvis Presley il loro modello di divismo, dunque la loro piattaforma identitaria di riferimento.
Tuttavia, il portato di sovversione culturale implicito nella genesi del gruppo si ricompone nella necessaria stabilizzazione organizzativa della nuova famiglia che emerge dalla catastrofe: i componenti dell’equipaggio, accomunati dalla mostruosa diversità che marca i loro corpi adattandoli alla materia mitica dei quattro elementi (fuoco, terra, aria e acqua), si insedieranno in un rifugio – una vera e propria dimora iper-tecnologicamente attrezzata – in cima a uno dei grattacieli di New York, posizionamento che coincide con lo sguardo dall’alto del dolly cinematografico ma anche, ormai, con la pervasiva tempistica della istantaneità televisiva.
Il contesto urbano in cui abitano, va ricordato, non è di finzione ma chiaramente riconoscibile nei suoi luoghi, e questa adesione alla temporalità e ai territori dell’abitare del pubblico è un elemento di innovazione che resterà tipico della Marvel. Il fatto di non vivere in una città immaginaria come Metropolis o Gotham City ma invece nella Grande Mela è parte integrante delle strategie di comunicazione della casa delle idee, e anzi è espressione di un marketing intimamente coniugato alla narrazione, nel quale il processo di identificazione tra immaginario e vita quotidiana (così come, si affermava in precedenza, tra Mito e Storia) diviene sempre più stretto. I modelli di comportamento dei componenti il gruppo, sebbene destinati a progredire nel tempo, si presentano al principio assai organici ai calchi simbolici del cinema e soprattutto della fiction televisiva.
Analizziamo i singoli casi. Il leader, Reed Richards, è caratterizzato da una rigidità caratteriale – il freddo scienziato tutto cervello e razionalità – che contrasta con la dimensione fluida e informale del proprio corpo eroico. In altri termini, mentre la sua leadership si fonda su precisi topoi dell’immaginario industriale (lo statuto di legittimità dello scienziato quale “regolatore” del rapporto tra sapere e società), la sua estetica lo spinge in direzioni antitetiche, attraverso una fisicità debordante e dal sapore dionisaco (ovvero fuori dai riconosciuti sistemi delle regole del comportamento borghese inerenti il corpo e la sessualità, dunque l’ordine definito tra individuo e comunità).
In fondo, il corpo di Mr. Fantastic è quello più estremo, incontrollabile, etimologicamente mostruoso, poiché travalica ogni limite formale della biologia, spingendosi verso una visionarietà assoluta e dai toni surreali. In ciò merita per intero il proprio nome d’arte, il “signore fantastico”.
La Torcia Umana, per contro, possiede un chiaro bilanciamento tra la sua identità “normale” – il teen-ager Johnny Storm, figlio rivisitato del Jimmy Dean di Gioventù bruciata – e l’infiammabilità di un corpo sottoposto sia alle mutazioni della radioattività che a quelle dell’adolescenza. Figura rappresentativa della percezione sociale dei giovani nell’apertura del decennio, Johnny sembra non avere in testa altro che un sottinteso e testosteronico interesse per le ragazze. Passa il tempo a praticare i riti dei consumi giovanili, guida costose auto sportive e mantiene uno spensierato livello di vita che gli viene garantito dalle sostanze ereditate e dal severo professionismo del cognato Richards.
Ma attenzione: dietro l’apparenza edulcorata del conflitto generazionale si nasconde molto di più, un’attitudine rinnovata al dissenso e al rifiuto dell’autorità, che in battaglia raggiunge – soprattutto con Mr. Fantastic – toni senza precedenti nella tradizione del fumetto supereroico. A conferma di ciò, un altro hobby della Torcia Umana non privo si significato in termini sociologici è il suo scherzoso quanto aspro conflitto con l’altra figura maschile di riferimento.
Lo “zio” del gruppo (altro stereotipo ricorrente della famiglia mononucleare borghese) è Ben Grimm, pilota collaudatore ed ex-giocatore di football americano, dunque uomo d’azione più che di pensiero, che la catastrofe spaziale ha trasformato in una creatura titanica quanto orrenda. Coagulo molto ben riuscito dell’idea romantica di mostro, Ben diviene per tutti la Cosa: meravigliosa indicibilità sostanziale della condizione di un diverso spinto ai limiti materici e formali dell’Umano, fino a coincidere con una sorta di originarietà totemica e animistica del mito del mostruoso.
Eppure si potrebbe dire che, per il lettore di comics, la Cosa emani proprio per questi motivi un potente “sex-appeal dell’inorganico”, seducendolo nelle connessioni simboliche dell’ibrido tra animato e inanimato. E’ interessante considerare che l’unica chance di felicità del tormentato Ben risiede al di fuori del gruppo – dunque al di fuori della famiglia supereroica – e assume i tratti di una donna cieca dedita alla scultura, ovvero di un soggetto che sposta la costruzione della propria vita sentimentale e dei suoi valori dalla vista a una sensibilità tattile che richiama alla mente l’idea di McLuhan sugli effetti dei media elettronici riguardo il corpo.
Infine, la Donna Invisibile appare all’inizio come la sostanziale invisibilità della donna nelle convenzioni dell’epica eroica di massa, relegata – come le minoranze etniche – in una zona d’ombra della dicibilità sociale dell’immaginario. Ben presto, tuttavia, Sue Storm “scopre” di avere poteri ben più ampi del semplice non-apparire che fin lì le aveva permesso di operare quasi ai margini del gruppo, in supporto ai veri guerrieri che non potevano non essere maschi e aggressivi.
La crescita d’importanza di Sue attraverso la “scoperta” dei propri reali superpoteri (la produzione dei campi di forza, ad esempio) coincide curiosamente con le istanze di un femminismo che proprio negli anni ’60 cominciava a rendersi, appunto, questione visibile anche attraverso la rinnovata aggressività estetica della Moda e la montante domanda di conoscenza sui temi della sessualità. La Donna Invisibile comincia a contare di più nell’economia narrativa della serie, affrancandosi in maniera netta dalla figura femminile ancora anni ’50, partendo dal look e dalle posture assai castigate, con cui era stato concepito il suo design nelle prime storie. Nella Cosa come nella Donna Invisibile, dunque, possiamo oggi individuare uno dei primi segnali forti del tramonto delle convenzionali identità di genere.
D’altronde, nessun componente dei Fantastici 4 potrebbe aderire in toto ai modelli del decennio precedente: la rivoluzione dei ’60 è in atto, e i fumetti Marvel si ritroveranno a cavalcarla attraverso un restyling complessivo del medium disegnato. Non a caso, il senso della catastrofe aleggia costante sulla serie, fino all’incontro con Galactus, che reintroduce nell’ordine del mondo tardo-industriale l’idea dell’immanenza della Crisi come condizione ineliminabile della modernità. La figura del nemico, dunque, non coincide più con quella esterna della Golden Age ma, invece, assume i tratti di una minaccia globale legata alla criticità del modello di sviluppo.
E’ in questo contesto che si evince in maniera sempre più chiara l’insieme dei temi connessi all’epos narrativo dei Fantastic Four: la critica riorganizzazione del corpo sociale trova espressione metaforica nelle mutazioni dei corpi immaginari del gruppo Marvel. Nei Fantastici 4 si realizzano le condizioni più evidenti di questo processo, che segnala la crisi delle forme tradizionali dell’autorità a partire dagli assetti e dalle culture della famiglia.
L’incontenibilità dei comportamenti adolescenziali della Torcia Umana è solo uno dei tanti indicatori che la serie mette in mostra per affermare la propria attualità storica e dunque la propria presa sul pubblico. I Fantastici 4, infatti, sono quattro poiché aumentare il numero dei corpi e la complessità delle loro interazioni è l’unica chiave per rendere davvero il clima di un’epoca cui non basta più il “semplice” dualismo dei vecchi supereroi.
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