Perché tutta questa attenzione, tutto questo amore amore, tutta questa passione intorno al primo numero dei Fantastici Quattro? Perché tanti disegnatori, esperti, saggisti, critici hanno risposto all’appello de Lo Spazio Bianco senza percepire e neppure chiedere denaro? Soprattutto, perché l’ho fatto io?
Sono parte di tutto ciò e non posso pretendere oggettività, o di analizzare la cosa dal di fuori, ma accettare l’invito mi ha costretto a pensarci un po’ su e una pulce fastidiosa ha iniziato a ronzarmi nell’orecchio.
E come negli articoli ammodino, adesso vi tocca l’argumentatio.
Molti considerano i Velvet Underground il gruppo più importante del rock moderno dopo i Beatles. Non sono però molti (a partire dai componenti del gruppo, tra cui un certo Lou Reed, che nessuno accuserebbe mai di falsa modestia) quelli che considererebbero la loro attività un “successo”, parola su cui naturalmente bisogna intendersi.
Per esempio, non vendettero mai molti dischi, in un’epoca in cui “disco” indicava effettivamente un oggetto in vinile con questa forma e in cui la musica ancora si vendeva, e spesso anche bene. Vuole la leggenda che il loro primo, leggendario (e già vedete che parole mi viene da usare) album omonimo del 1967, prodotto da Andy Warhol e con la banana in copertina, vendette 5.000 copie (next to nothing, per il mercato USA di allora) ma che tutti quelli che lo acquistarono fondarono una band. Conteneva pezzi come Sunday Morning, Venus in fur, I’m waiting for the man, Heroin, All tomorrow’s parties e li riconoscerebbero alla prima nota anche i non appassionati, a cui magari i titoli non dicono molto (immagino che sia possibile ma naturalmente non ci credo).
“Importante” nel senso di “influente”, quindi. E poi “amato”, “citato”, “che suscita passione”, “ascoltabile e ascoltato anche dopo molto tempo”, “al di sopra delle mode”, “che ispira altri musicisti a distanza di anni”, “di cui tutti dicono ‘lo sto riascoltando’ perché si vergognerebbero a dire ‘lo sto ascoltando’”.
L’ultima frase potrebbe suonarvi familiare. È quasi identica a una delle definizioni – riferite ai libri e a loro volta ormai classiche – che Italo Calvino dà di “classico”. Già che ci siamo rubiamone ancora qualcuna: Calvino considera classici quelli “che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati”; “che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale”; “che non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire”; “che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.”
Queste affermazioni richiedono ovviamente che le opere siano conosciute, ma non il loro “successo”, almeno non nel senso moderno e commerciale del termine, cioè – diciamo – la vendita di molte copie in un periodo limitato di tempo. Per esempio, si afferma spesso che i due libri più ristampati e influenti di sempre sono La Bibbia e gli Elementi di Euclide, che le classifiche di vendita non le hanno mai viste neanche da lontano (anche perché per millenni ne sono circolate poche, singole copie). Se promettete di non equivocare e di non trarre conclusioni affrettate, si potrebbe anche aggiungere che Mein Kampf di Adolf Hitler, al contrario, è stato stampato e distribuito per circa 20 anni in decine di milioni di copie in tutta la Germania (e con tirature minori ma non marginali anche in numerosi altri paesi) ma che secondo lo storico Joachim Fest, autore di una monumentale biografia del dittatore, si tratterebbe di uno dei libri meno letti di sempre. E ciononostante sarebbe difficile negare la sua enorme influenza sulla storia del XX secolo (senza che con ciò, probabilmente, soddisfi ad alcuna delle tante definizioni di Calvino). Pensateci: un libro importante e influente anche se non viene letto. E anche se è falso dalla prima parola all’ultima, se è per questo, come I Protocolli dei Savi di Sion, tanto per restare in quei paraggi storico-culturali.
Si potrebbe continuare a lungo (e dovreste certamente leggere Perché leggere i classici di Italo Calvino, se già non è tra le vostre letture formative) ma direi che l’idea è la seguente: la rilevanza di un’opera può percorrere strade tutt’altro che ovvie.
Non credo che si conoscano le vendite di Fantastic Four 1, mentre è storica la ritrosia dell’editore di allora Martin Goodman a parlare di cifre, quindi personalmente non mi fiderei di testimonianze indirette (“Goodman mi disse che…”) ma solo di documenti originali, come rendiconti o fatture del distributore, o almeno del tipografo (conoscendo la tiratura, alcuni parametri commerciali come lo sconto applicato e facendo ipotesi ragionevoli sulle principali voci di costo, come per esempio le tariffe corrisposte agli autori, si potrebbe risalire a una stima probabilmente rudimentale ma forse indicativa del venduto minimo necessario per pareggiare le spese).
Naturalmente non fu un flop, altrimenti non saremmo qui a parlarne, ma probabilmente neppure un clamoroso successo da subito. Possiamo supporre che le vendite fecero pensare all’editore qualcosa tra “per ora non ci perdo” e “be’, poteva andare peggio” (più o meno come Rat-Man 1 del marzo 1997; un paragone che non dispiacerà a Leo Ortolani).
Andando avanti, si sa, le vendite aumentarono, ma – per quanto è dato di dedurre indirettamente da interviste e testimonianze sull’affermazione della Marvel nei primi anni Sessanta – gradualmente, senza una vera e propria esplosione, al contrario dell’autentico successo commerciale (nel senso di cui sopra), nonché portabandiera della casa editrice, che fu sempre l’Uomo Ragno (sono vecchio, non chiedetemi di chiamarlo Spider-Man in un articolo italiano, vi prego).
A questo punto, chiuderei qui. Scusate per l’argumentatio interrupta (esistono interruptiones peggiori) ma non ho altro da aggiungere. Non a questo singolare, pazzesco, assurdo, bellissimo omaggio a fumetti, e ai tanti, tantissimi saggi e interventi.
Perché tutta questa attenzione, tutto questo amore amore, tutta questa passione intorno al primo numero dei Fantastici Quattro? Fate come me, rileggete Calvino e toglietevi quella pulce dall’orecchio.
Andrea Plazzi
– Bologna, settembre 2011
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