Intervista a Francesco Barilli
La Becco Giallo aveva già dato alle stampe un volume sui “fatti del G8 di Genova”. Come ti è venuto in mente di proporre un libro su Carlo Giuliani e cosa pensi abbia convinto l’editore a procedere?
Ho conosciuto Haidi, la mamma di Carlo, pochi mesi dopo l’omicidio del figlio. Sono diventato amico suo, e in generale della famiglia Giuliani, in quel periodo. Un rapporto che si è fatto stretto, solido col tempo. Tanto che quando Haidi ha voluto dare vita a reti-invisibili (sito che raccoglie al suo interno molti casi di vittime delle forze dell’ordine o di neofascisti da Portella della Ginestra in poi) ha chiesto a me di occuparmene. Insomma, la morte di Carlo è un fatto che “sento mio” per molti motivi. In un certo senso posso dire che ha cambiato la mia vita: non mi sarei mai messo a scrivere se, ormai dieci anni fa, l’uccisione di Carlo (e in generale i fatti di Genova) non m’avessero distolto da quel “ritiro nel privato” a cui m’ero consegnato all’epoca.
Per quanto riguarda l’editore, penso che una storia come quella di Carlo sia nel dna del BeccoGiallo: lo testimonia non solo il loro catalogo, ma pure il loro impegno civile di questi anni.
Quale è stato, a parte la conoscenza diretta del caso, il vero motivo che ti ha spinto a lanciarti nello scrivere una sceneggiatura sicuramente difficile e piena di insidie (leggasi la “facilità” di cadere nella partigianeria, ad esempio)?
Guarda, a dire il vero non è che il lavoro precedente (Piazza Fontana) fosse meno insidioso, anzi… Tra l’altro fra la strage del 12 dicembre 69 e la morte di Carlo ci sono più cose in comune di quanto possa sembrare a uno sguardo superficiale. Non parlo solo di vicende processuali deludenti (nel caso Giuliani addirittura la storia processuale si è arenata in fase preliminare) ma soprattutto di storie in cui anche la memoria storica è perennemente a rischio di riscritture. Il mio lavoro, su Piazza Fontana come per il caso Giuliani e così pure l’attività di coordinamento di reti-invisibili, in fondo potrebbe essere definito così: un presidio a difesa della memoria.
Che riscontri pensi di avere dal volume? Pensi sia possibile che il volume sia letto e valutato senza preconcetti e partigianeria?
Sinceramente: no, non credo. Parlo in generale, ovvio: è chiaro che gli esseri umani sono talmente complessi che è possibilissima qualsiasi sfumatura di giudizio e di approccio, persino quella più impensata di qualcuno che si avvicina al libro in un modo e ne esce cambiato nelle proprie convinzioni. Ma in generale mi sembra che (almeno qui in Italia, in altri paesi non so) non ci sia questa possibilità. Peraltro, la storia di Carlo, così come tutte quelle di vittime delle forze dell’ordine, reca con sé inevitabilmente la tendenza a formare degli schieramenti “a prescindere”, come direbbe Totò. E’ un peccato, perché io ho sempre pensato che proprio il rispetto anche delle forze dell’ordine, affinchè sia “sano” e non un dogmatico “atto di fede”, pretenderebbe una trasparenza assoluta che purtroppo troppo spesso manca. D’altro canto la storia del nostro Paese è una continua testimonianza proprio dell’incapacità degli apparati dello Stato a mettersi in discussione, figuriamo ad indagare su se stessi… In questo contesto mi è difficile pensare che ci sia la voglia di “mettere in forse” proprie convinzioni precostituite.
In cuor tuo pensi di essere riuscito a mantenere distacco dalla vicenda tragica (a le molte parti didascaliche della vita di Carlo sembrano mirare a questo) o dal volume pensi traspaia partecipazione e schieramento? Se così fosse pensi sia un bene o un male?
Ti dicevo prima della mia amicizia con la famiglia Giuliani e con Haidi in particolare, circostanza che peraltro non ho mai nascosto, è nota a tutti quelli che hanno seguito i miei lavori. Quindi sarei ipocrita a dire che non sono schierato. Vorrei però fare una precisazione: non ho mai provato particolare simpatia per i termini “bipartisan” o “sopra le parti” (come approccio intellettuale, intendo). Dire che “la verità sta sempre nel mezzo” m’è sempre sembrata una sciocchezza (a volte sta lì, altre pende decisamente da una parte). E, consentimi una mezza battuta, il termine “partigiano”, almeno in Italia, dovrebbe essere ancora qualcosa di cui andare fieri (anche se in Italia purtroppo ormai anche la Resistenza è messa pesantemente in discussione: il revisionismo della memoria, a cui accennavo prima, non ha scrupoli…). L’importante, a mio avviso, non è l’essere imparziali, ma l’essere intellettualmente onesti (con se stessi e verso gli altri) nel momento in cui si sceglie “da che parte stare”. Intendo dire che se scelgo di schierarmi (sto parlando in generale, non del solo “caso Giuliani”) lo faccio dopo aver studiato i fatti, non per preventive “esigenze di bandiera”.
Ci dai un giudizio sul tuo disegnatore in questo volume?
Nella mia breve esperienza di sceneggiatore sono stato fortunato: ho trovato due disegnatori , Matteo e Manuel, con cui non condivido solo una certa idea di fumetto come “impegno civile”, ma anche qualcosa che non riesco a descrivere se non come “visione del mondo e della vita” (lo so: è retorico ma, credo, efficace).
Dal punto di vista strettamente tecnico, di Manuel mi ha sorpreso (credo di non averlo mai detto neppure a lui) la velocità intuitiva con cui riusciva a “vedere” le tavole, fin dai primissimi schizzi: credo non m’abbia “scazzato” un solo balloon, riuscendo a dare equilibrio alle tavole, anche a quelle più prolisse. A questo proposito (lo preciso per chi non ha ancora letto il libro) devo dire che alcune parti erano davvero tecnicamente difficili: se in alcuni capitoli abbiamo spaziato verso un approccio lirico-evocativo, in altri siamo stati costretti a rimanere sul piano di una ricostruzione fattuale, con inserti anche da atti processuali. In quei casi era facile scivolare verso un didascalismo eccessivo: se l’abbiamo evitato è stato merito di Manuel.
Io non sono uno sceneggiatore puro; è un limite tecnico che mi riconosco: per scrivere un fumetto ho bisogno di disegnatori con cui condividere del tutto il processo creativo e forti nello storytelling. Disegnatori che sappiano dare forma alle mie idee anche in quelle parti in cui sono semplici “suggestioni”, intendo: e con Fenoglio e De Carli è stato proprio così.
Intervista a Manuel De Carli
Come già nel precedente volume ThyssenKrupp ti sei trovato spesso a realizzare tavole dove il personaggio che parla si rivolge al lettore nello spiegare una vicenda. Come affronti questo tipo di disegno?
Per quanto riguarda ThyssenKrupp si è scelto di fare entrare sul proscenio una figura che desse dei dati sostanzialmente tecnici, seppur inseriti in un contesto
narrativo. Per questo libro la formula è differente. Chi comunica non è un personaggio X, sono i familiari. Di qui la scelta di mantenere da un lato un estremo rispetto nel loro trattamento dinamico (gesti, atteggiamenti, toni) dall’altro vengono associati a oggetti che sono parte fondamentale del racconto stesso, dei fatti reali: l’estintore, lo scotch, il passamontagna. Questi elementi hanno anche la funzione di rendere meno statiche le parti in cui il personaggio parla.
Hai realizzato delle tavole molto “ariose” spesso con didascalie e vignette abbastanza verbose (che magari riportano testualmente atti del processo); sei contento del risultato finale del volume?
In generale non amo i fumetti con tanto testo. Per questo tipo di lavoro è stato necessario inserirne diversi, insieme a dialoghi di tipo empatico, ricordi. Si è trattato di amalgamarli in maniera coerente, fluida. Devo ringraziare molto Giuliano Giuliani che si è dimostrato molto bravo nel capire subito i meccanismi di sintesi che fanno proprio il linguaggio a fumetti. Per quanto concerne il disegno ho cercato di mantenere uno stile realistico, visti i presupposti. Cosa, questa, che non mi appartiene molto, tendendo come stile al grottesco. Mi pare, ad ogni buon conto, di aver fatto un buon lavoro. Posso affermare che può essere disprezzabile, come diceva qualcuno.
Nel volume vi sono moltissime parti “oniriche” costruite dallo sceneggiatore che ti hanno permesso di allontanarti e allontanare il lettore dai crudi eventi tragici che son culminati con la morte di Carlo Giuliani; visti i precedenti ( “Intimo cucito” e “ThyssenKrupp”) sembra che questa narrazione sia ormai parte della tua cifra grafica. Come la affronti? Quanto ti affascina?
“Intimo Cucito”, che è scritto e disegnato da me, e “Thyssenkrupp”, scritto da Alessandro Di Virgilio, sono lavori molto diversi. Il primo è un viaggio nella mente di un adolescente, i suoi problemi, le proprie insicurezze, con tutti i risvolti del caso, mentre “ThyssenKrupp” vuole descrivere, per quanto possibile, il vivere accanto ad una mancanza, ma anche la vita che continua dopo una tragedia (annunciata). Con “Intimo Cucito” la parte onirica altro non è che la soggettiva dell’anima del protagonista, più che onirismo lo definirei una soggettiva di uno stato di allucinazione. In “Thyseenkrupp” la parte che si avvicina di più a un sogno è quella che racconta la tragedia: qui si tratta di simbolo. I fatti tragici di quella notte sono descritti usando simboli ispirati da testimonianze, racconti diretti. Trovo straordinario raccontarle entrambe in forma fumetto. È, rimane e rimarrà, uno dei medium più efficaci per raccontare mondi. A mio giudizio il più efficace.
Ti sei ritrovato nuovamente a disegnare una storia tragica contemporanea; riesci a mantenere le distanze dall’emozione nel disegnare o pensi (e magari speri) di non riuscirci?
Non è facile. In primo luogo scegliendo di fare questo tipo di lavoro si corrono dei rischi, si può essere fraintesi molto facilmente: si potrebbe essere tacciati di cercare visibilità attraverso tematiche forti, da un lato. Essere accusati di indossare un abito per una data occasione, in questo caso l’impegno civile, dall’altro. Un altro aspetto sta nella difficoltà nell’approccio al lavoro: quando devi trattare temi di questa natura devi porti con estrema umiltà, ascoltare molto attentamente le cose, captare gli umori. In questo modo si entra un poco più a fondo in ciò che si vuole poi disegnare. Fondamentale è stato andare a Genova e stare con Haidi, Giuliano e Elena. Questo processo porta inevitabilmente ad una grande affezione. Ricordo l’anno scorso a Fabriano durante una presentazione del libro sulla ThyssenKrupp all’Università: stavo esponendo alcuni passaggi nella parte in cui il nostro personaggio/coro intervista un ispettore del lavoro. Quest’ultimo racconta nei particolari un incidente accaduto in una fabbrica di fuochi d’artificio. Nel dire come quest’uomo ancora oggi si emozionasse sentendo l’odore di erba bagnata, causato dagli idranti dei Vigili del Fuoco, la voce mi si strozzò in gola e feci fatica a parlare. Ci fu un applauso spontaneo che mi colpì e mi aiutò molto.
Ci dai un giudizio sul tuo sceneggiatore in questo volume?
Francesco non è uno sceneggiatore, quindi lavorare con lui è stato in qualche modo ancora più stimolante, mi sono sentito ancora più coinvolto. Molte cose sono state concertate certo, ma è una persona molto attenta, molto intelligente, è curioso come un ragazzino. Lo considero, tra le altre cose, un bravissimo giornalista. Francesco è diventato un amico, dopo questo progetto. Mi piacerebbe molto vederlo su un lavoro di fantasia, credo ci stia già pensando…
Abbiamo parlato di:
Carlo Giuliani: Il ribelle di Genova
Francesco Barilli, Manuel De Carli
Becco Giallo Editore – Collezione Biografie, 2011
176 pagine, brossurato, bianco e nero – 16,00€
Riferimenti:
Il “sito” del libro, con presentazione autori e anteprima in pdf: blog.beccogiallo.net/tag/carlo-giuliani/
Francesco Barilli, il sito: francescobarilli.blogspot.com
Manuel De Carli, il sito: www.manueldecarli.it
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