Chissà nel 1939 cosa pensavano del fumetto gli insegnanti di disegno di Joe Kubert alla New York High School of Music and Art, laggiù nella 135a strada di Manhattan. Chissà se l’arte sequenziale era già stimolo di discussioni artistiche o, come tutte le novità, veniva messa da parte laddove c’era il rischio di avvicinarla all’Arte con la A maiuscola. Si può essere tuttavia facili profeti nel dire che difficilmente nel 1939 Joe Kubert (così come il più illuminato e progressista disegnatore di fumetti) avrebbe mai pensato di realizzare, ad esempio, un volume come Yossel, senza vignette chiuse da gabbie, senza inchiostro, grezzo come il foglio e la matita che si usavano per fare gli schizzi.
Eppure senza baloon come le impressionanti tavole di Flash Gordon dell’eccezionale Alex Raymond (che faceva parlare i personaggi nelle didascalie). Lo stile di Kubert, dalla prime storie pubblicate fino ad oggi, ha subito un ovvio e progressivo miglioramento; la padronanza del tratto e la sua consistenza di quest’ultimo ha raggiunto livelli impressionanti. Nel caso del volume ‘Yossel’, tale miglioramento coincide, paradossalmente, con una minore “bellezza” del disegno (non è colorato né con i toni piatti della golden age, né ad acquerello come fanno gli Artisti, né con il computer e gli strabilianti effetti grafici del giorno d’oggi ), una minore attenzione nel disegno (spesso solo abbozzato, quasi mai perfettamente definito) e, tout court, una minore perfezione (é a matita e non chinato).
Che questo non tragga in inganno; infatti, come accennato prima, la consistenza e l’esperienza acquisita negli anni, rende uno schizzo a matita di Kubert un disegno decisamente potente, molto di più di una sua china di venti, trenta anni fa. E, tornando più indietro nel tempo, il viaggio fra le mille e mille storie disegnate del Maestro Kubert ci porta a contatto con un lento passaggio dallo schema fisso a striscia (utilizzata all’inizio proprio perché era quello che si realizzava, strisce per quotidiani e non pagine intere per giornali a fumetti) alla libertà totale della graphic novel.
La vecchiaia (ci perdoni l’autore) porta la maturità sia nel dire cose più importanti sia nel dirle in maniera più autorevole e decisa. Quel bambino che a dodici anni cancellava le matite dalle strisce dei disegnatori dell’epoca, che amava disegnare e che, a detta di tutti, era eccezionalmente bravo nel farlo, ritorna con forza a caratterizzare tutto il percorso artistico di Kubert. Nelle tantissime storie di guerra realizzate più che sottolineare gli aspetti truculenti delle vicende (pure presenti per non edulcorare troppo una realtà, quella bellica, tristemente piena di sangue) la matita di Kubert ha spesso privilegiato gli sguardi dei soldati, la postura dei corpi stanchi per le privazioni e la paura, la stanchezza e la paura dipinte sui volti imperlati di sudore, le fessure nere sotto l’elmetto nelle quali immaginiamo occhi pieni di paura e voglia di tornare a casa. E si era dimostrato, allo stesso modo, sempre attento a come il contesto condizioni i personaggi quando fu chiamato a realizzare Tarzan (e la jungla nella quale si muove). Il personaggio fu finalmente riprodotto con maggiore fedeltà e reso anche graficamente selvaggio al punto giusto prendendo le distanze dall’impettito nonché stilisticamente perfetto e pulito tratto di Russ Manning, che l’aveva caratterizzato in precedenza. Anche nelle storie di Tor, il “suo” tarzanide, la matita si è spesso divertita ad accentuare il lato animalesco dei personaggi, calati in una vita quotidiana a contatto con i rischi ed i pericoli di una natura selvaggia e avversa. Così come nelle graphic novel dell’ultimo decennio Kubert ha spesso disegnato nei volti dei suoi personaggi sofferenze, paure e dolore.
Riguardandole rapidamente scopriamo come le storie raccontate dall’autore ci abbiano quasi sempre parlato di characters solitari; i quali agiscono e vivono in contesti decisamente più grandi, storici e importanti di quanto può essere la loro singola esistenza o le loro azioni. La capacità dell’autore è far sì che questi contesti non diventino l’argomento dei fumetti. Anche nelle storie di guerra (e sono tante) realizzate, Kubert non celebra o racconta la Guerra con la G maiuscola; il racconto è sempre quello dei personaggi che sono i protagonisti degli albi. È forte la capacità di lasciare sottotraccia l’evento (la Seconda Guerra Mondiale, la sopravvivenza nella Jungla, nel Far West o nell’avida America dell’inizio secolo, la guerra in Bosnia, l’occupazione nazista in Polonia) e far salire in primo piano il racconto dell’uomo comune.
Non è un caso che un disegnatore così dannatamente cinetico abbia una produzione supereroistica percentualmente ininfluente rispetto alle ambientazioni realistiche; e se sottolineiamo che il fumetto in Usa è fumetto di successo praticamente solo se è fumetto in calzamaglia e mantello, capiamo quanto vale Joe Kubert per essere un autore di successo da sessanta anni. ‘Yossel’, che poteva essere sintesi di perfezione nel lettering, nelle chine e nei colori, è un volume che raggiunge la perfezione proprio grazie alla mancanza di queste cose, la perfezione data da ciò che il semplice disegno a matita, per anni coperto da chine e colori, può dare, anche se appena abbozzato. Fin dall’inizio della sua carriera Kubert ha sempre sostenuto che il disegnatore di fumetti non è solo una piccola parte della catena artistica di montaggio che ci consegna l’albo finito. Deve essere anche inchiostratore, letterista e colorista, se necessario.
separatorearticoloDa sempre amante del disegno e dell’inchiostrazione, Kubert ha quasi sempre provveduto ad inchiostrare le sue matite e perfino a fare il lettering delle sue storie. Egli stesso racconta di portare sempre con sé un quaderno nel quale appunta, schizza quello che vede ovunque vada in giro e ‘Yossel’, in pratica, è l’Olocausto schizzato dall’autore sul suo quadernetto di disegni. Per questo la matita non è rifinita né chinata. Non ci sono cancellature e si vedono gli schizzi di sfondo fatti per creare la struttura “grezza” del disegno. Spesso la pagina stessa è sporca, volutamente; chiunque abbia mai disegnato a matita su un foglio di carta sa bene come la mano si sporchi sul lato del palmo e sul lato esterno del mignolo lasciando un alone sul foglio. In tante pagine questi aloni si vedono come si vedrebbero sul proprio foglio da disegno. Si può notare la punta fine della matita che serve a delineare alcuni disegni; poi con la stessa matita, continuando a dare varie righe per dare colore ai disegni la punta si arrotonda e si vede come la punta affinata sia scomparsa ed ogni riga diventi sempre più larga e meno precisa.
Sono spesso a vista le righe (come i meridiani ed i paralleli nelle rappresentazioni del globo terrestre) che attraversano i visi dei personaggi: sono le righe che i maestri del fumetto (Burne Hogart, uno dei suoi predecessori nella realizzazione di Tarzan, per esempio) hanno insegnato a fare ai propri allievi per sapere dove mettere occhi, naso per non perdere la tridimensionalità dell’immagine ed i rapporti di misura. Per dare l’effetto della luce che batte su qualche viso o oggetto Kubert usa un po’ di tempera bianca che spicca sul foglio sporco e sporcato da tanti segni a matita. Nelle pagine non ci sono cancellature e tanto meno tentennamenti; Kubert sa dove mettere i personaggi e come metterli; non ha paura di lasciare un disegno quasi sospeso nella pagina vuota perché sa che il ritmo narrativo lo sostiene; l’immediatezza raggiunta dalla soluzione grafica è sinonimo di facilità di lettura. Le immagini rappresentate in primo piano sono delineate da una matita più rada, meno calcata e meno frequentemente usata; sullo sfondo, alle spalle, molto spesso la matita è doppia e intrecciata in retini. In conclusione ci piace annotare che spesso nel libro è ritratto Yossel che disegna; se sbirciamo i suoi schizzi scopriamo che sono quasi sempre in line-art, senza molte sfumature e chiaroscuri, con un tono spesso fumettistico e supereroistico. Yossel, paradossalmente, disegna molto meglio di Joe Kubert; nei suoi disegni raramente c’é traccia di cancellature e/o ripassi e sono quasi già perfetti al primo tentativo.
Non sono solo le enormi capacità di disegnatore pero’ a renderlo un vero nume tutelare dell’arte sequenziale a disegni: fare fumetto, infatti, non è semplicemente disegnare (e disegnare bene, magari). Fare fumetto e farlo bene vuol dire essere in grado di narrare per immagini e parole, utilizzando alla pari i due strumenti (le immagini e le parole) in una miscela (o cocktail, come direbbe un nostro amico anglofono) abilmente dosata che non faccia prevalere l’uno sull’altro. E, ci spiace essere così perentori, Joe Kubert, in quest’arte, è pietra miliare, punto assoluto di riferimento e maestro al tempo stesso. Il suo disegno è talvolta scarno, rauco, mosso, cadente e magari apparentemente non bellissimo, in una parola la sua arte è sintesi di tutto questo, ma è allo stesso tempo sempre potente, evocativo, emozionante; eccezionale, alla fine, se combinato con quella che è la scansione delle immagini e delle vignette, l’inquadratura delle stesse, le scelte dei primi piani, la sceneggiatura, i testi. Trasudano, le pagine di Kubert, di voglia di raccontare che mai resta tale solo nelle intenzioni dell’autore, ma che si tramuta sempre in messaggi che arrivano al bersaglio.
La conoscenza, totale, delle strutture narrative permette all’autore di scegliere, tavola per tavola, vignetta per vignetta, inquadratura per inquadratura il giusto peso da dare a qualche immagine rispetto all’altra, a un movimento più che a un altro. E questo, permetteteci, lo colloca ai primi posti di una immaginaria classifica di autori a fumetti, semplicemente perché riesce a fare quello che il mezzo si propone di fare, con semplicità, immediatezza e potenza, raccontare per immagini.
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