Un “BIG” alla corte di Sergio Bonelli: Alessandro Bignamini

Sei un “giovane” autore con una lunga esperienza; professionista da 18 anni (16 dei quali in Bonelli). Ci parleresti della tua rapida gavetta pre-Bonelli?
Il mio percorso lavorativo è stato abbastanza lineare e definito, a partire da quando decisi con assoluta fermezza di iscrivermi e frequentare il liceo artistico, che per me rappresentava un passaggio obbligato e inevitabile, per poter accedere ad un corso di specializzazione del quale avevo già visto appese in giro le locandine pubblicitarie, si trattava della scuola del fumetto di Milano. Una volta concluso il liceo e quindi finalmente approdato alla scuola del fumetto, ovviamente mi si aprii un mondo, fatto di un ambiente molto stimolante sia per la materia in cui tutti ci andavamo a specializzare, ma soprattutto per le frequentazioni e i confronti con gli autori/insegnanti ( per citarne alcuni Carlo Ambrosini, Aldo Di Gennaro, Ferdinando Tacconi e, su tutti, Angelo Stano) che ci raccontavano le loro esperienze professionali e ci istruivano passo a passo anche nell’affrontare il mercato dei comics. Ho necessariamente fatto questa lunga premessa, perché proprio in quegli anni ed attraverso quella scuola,iniziai a muovere i primi passi nell’ambito fumettistico, la prima occasione fu quando vinsi fuori concorso(per decisione della giuria) un bando organizzato dalla PaperMate, riguardante una probabile campagna pubblicitaria di un nuovo loro prodotto. In quella occasione conobbi chi formava la giuria ovvero, Silver, Sergio Toppi, Di Gennaro e soprattutto Sergio Bonelli, che con grande delicatezza e fare paternalistico mi avvicinò e mi disse di portargli qualche tavola di prova di un personaggio a mia scelta, tra quelli da lui prodotti, per iniziare a discutere una eventuale collaborazione. Dopo alcune prove però (mai presentate) e consigliato dai professori, ritenni di essere ancora impreparato per un passo così importante, quindi preferii accettare una proposta meno impegnativa, che mi fecero qualche tempo dopo le Edizioni Eden, mentre stavo ancora frequentando l’ultimo anno di corso. Iniziai così a pubblicare per loro, un mio libero adattamento del “Gatto nero” di Allan Poe e a realizzare tutti gli studi per una nuova serie di cui poi produssi anche diverse tavole per il numero uno, ma che non videro mai la pubblicazione, a causa di una brusca interruzione del rapporto con l’editore, quella serie si intitolava “Elton Cop”. Le esperienze fatte successivamente furono molto più gratificanti  ed istruttive, infatti dopo aver collaborato con varie “fanzine” e piccole riviste, approdai alla casa Ed. Universo, per la quale ho realizzato una decina di storie libere e due o tre copertine per la rivista Intrepido e,  preso in mano e condotto per quattro episodi, la serie avviata da Bruno Brindisi e scritta da Peppe De NardoOrazio Brown”, e anche un episodio di “Billiteri”, altra serie di buon successo. Queste sono le esperienze piu significative che mi hanno formato e portato in seguito ad approdare alla Bonelli.
A que­sto aggiun­giamo il fatto che sen­tissi molto la respon­sa­bi­lità ed il peso della rea­liz­za­zione di sto­rie per un per­so­nag­gio dal pas­sato così impor­tante e oltre­tutto ideato e scritto per anni dal nostro Editore.

L’approdo alla casa editrice meneghina è stato apparentemente rapido, ce ne racconteresti i “retroscena”?
Come già detto l’esperienza fatta sull’Intrepido mi ha permesso di formarmi molto, ma anche le piccole collaborazioni con altre riviste mi hanno dato l’opportunità di entrare in contatto con diversi autori, tra questi devo doverosamente citare Daniele Brolli, che oltretutto considero un grande autore e creatore di testate, per citarne una” Cyborg”, che leggevo e seguivo con interesse. Con lui ero già entrato in contatto alcuni anni prima (tipo nel ‘91) perché voleva coinvolgermi in un progetto di uno spin off, per un nuovo personaggio estrapolato dalla bellissima serie “Ramarro” di Giuseppe Palumbo, ma essendo in partenza da lì a poco per il servizio civile, fui costretto a declinare l’invito per una questione di tempo e serietà. Lui comunque seguii i miei passi successivi e fece il mio nome nel ‘94 a Michele Masiero che in quel periodo si stava occupando di metter su uno staff di nuovi autori per il rilancio di una storica testata Bonelli, Mister No. Dopo alcune prove realizzate del pilota amazzonico, fui assoldato nel team ed iniziai subito la mia prima collaborazione con la storica casa editrice, disegnando peraltro le vicende di un personaggio che già amavo come lettore.

Come è stato l’impatto con la più grande realtà artigianale/imprenditoriale del mondo del fumetto italiano?
Non lo nasconderò dicendo cose diverse, sicuramente passare da storie brevi di al massimo una ventina di tavole, come quelle che disegnavo per l’Intrepido, ai “mallopponi” infiniti che tuttora produco per la Bonelli, inizialmente mi ha creato alcuni problemi sia di qualità che di tempi di realizzazione. L’esperienza fatta con la Universo è stata molto formativa \ma confrontata con l’ industria Bonelli risultava niente, infatti la cosa più difficile inizialmente è stata abituarsi al metodo di lavoro di un sistema così avviato e molto produttivo, rispetto a storielle che realizzavo in maniera assolutamente libera e con pochi vincoli. A questo aggiungiamo il fatto che sentissi molto la responsabilità ed il peso della realizzazione di storie per un personaggio dal passato così importante e oltretutto ideato e scritto per anni dal nostro Editore.


Quali sono stati gli autori che hai principalmente letto fino all’approdo al professionismo, quelli che hanno forgiato il tuo immaginario visivo?

Questa è una domanda alla quale è sempre molto difficile rispondere, perché quando devi fare il punto riguardo a questo argomento o ti si annebbia la mente o sopraggiunge una valanga di nomi e personaggi ai quali senti di dovere molto. Cercherò di citarne alcuni che ritengo significativi, ma sento che il trascurane altri mi dispiacerà molto…comunque, partendo da quando ero bambino, che rimane il periodo in cui inizia tutto e si rimane affascinati e storditi dalla bellezza di ciò che leggi, autori come John Romita, John Buscema, Jack Kirby erano per me i veri supereroi, di loro infatti ricopiavo gli splendidi disegni sul tavolo della cucina, perdendomi per ore. Crescendo ho iniziato a conoscere e approfondire anche altri grandi autori come Magnus, Bonvi, Silver, Guido Crepax, Milo Manara e attraverso lo studio e l’approfondimento che si faceva alla Scuola del Fumetto, imparare ad apprezzarne altri come Hugo Pratt, Paolo Eleuteri Serpieri, Alex Raymond e il grande Alberto Breccia. Sicuramente ne sto dimenticando molti e forse è naturale che succeda, comunque la frequentazione successivamente di un grandissimo come Angelo Stano mi ha permesso di imparare e formarmi moltissimo, anche analizzando il lavoro di questi autori attraverso il suo occhio esperto.

Da quando sei professionista, quando sono cambiati i tuoi riferimenti grafici?
Ovviamente moltissimo, inizialmente il mio approccio al disegno era molto più confusionario, mi ispiravo al tratteggio esasperato di autori come Alfredo Alcala ed Eleuteri Serpieri, poi attraverso lo  studio di  altri grandi come Breccia e le sue molteplici fasi di disegno, sono giunto ad un secondo stadio in cui ho imparato ad apprezzare l’essenzialità di Pratt e il primo Magnus, per poi arrivare alla fase ultima, rappresentata da maestri come Kevin Nowlan, Brian Bolland, Joe Quesada e assolutamente su tutti Mike Mignola.

A chi senti di essere vicino graficamente?
Sin dal principio, il mio obbiettivo è stato quello di ritagliarmi un mio spazio tra questi nomi appena citati e ovviamente anche tra tutti i colleghi non citati, insomma la ricerca fatta in tutti questi anni ha sempre avuto l’obbiettivo di portarmi a sviluppare un mio stile grafico personale e riconoscibile. Spero quindi di esserci riuscito e di portare chi guarda i miei lavori ad affermare senza dubbio  “questi disegni sono di Bignamini” credendo che a una attenta osservazione dei miei lavori vi si possano vedere chiaramente le influenze di tutti gli autori citati, senza riconoscerne alcuno ma riscontrando una alchimia di tutti. Presunzione? Assolutamente no, anzi rispetto verso chi compra i miei lavori, e non vi trova un banale imitatore di altri, così come se ne vedono molti.

La tua inchiostrazione sembra decisamente classica, pennino, tratteggio, campiture nere… eppure le tue tavole sono dinamiche e spesso con inquadrature ardite. Ti si potrebbe definire un fumettista dal tratto classico ma non noioso. Ti riconosci in questa definizione?
Io in realtà se penso alla mia tecnica di disegno, non mi definirei un disegnatore classico, probabilmente a partire da queste tue considerazioni lo risulto e forse in parte è così. Quello che è certo è il mio approccio al lavoro, ovvero l’utilizzo di strumenti grafici non convenzionali, quindi niente pennini, niente china e pennello,  ma piuttosto i pennarelli calibrati, i pennarelli con punta a pennello, i marker con punta a scalpello e in alcuni casi le penne Bic. Attraverso questi strumenti, cerco di realizzare un prodotto quanto più leggibile possibile e soprattutto graficamente riproducibile in stampa, senza che né la lettura della storia né i miei disegni risultino penalizzati una volta pubblicati.
Sin dal prin­ci­pio, il mio obbiet­tivo è stato quello di rita­gliarmi un mio spa­zio tra que­sti nomi appena citati e ovvia­mente anche tra tutti i col­le­ghi non citati, insomma la ricerca fatta in tutti que­sti anni ha sem­pre avuto l’obbiettivo di por­tarmi a svi­lup­pare un mio stile gra­fico per­so­nale e rico­no­sci­bile
Per quanto riguarda il mio modo di raccontare invece, quando mi approccio ad una tavola, lo faccio come se stessi girando una sequenza cinematografica e, seppur riconoscendo i limiti imposti dal linguaggio del fumetto, cerco sempre un compromesso, prestando particolare attenzione agli attori in scena e al loro recitare. Con questo approccio, anche di fronte a una lunga sequenza di dialogo tra i personaggi, che spesso ritroviamo in sceneggiatura e che per molti risulterebbe un momento noioso della storia, per me diventa uno stimolo a curare la recitazione dei protagonisti, variando i tagli e le luci, rendendo quanto più dinamico ciò che racconto. È  certo oltretutto che le tante letture fatte di comics americani, che sin da piccolo hanno catturato la mia attenzione e tanto mi hanno coinvolto, sia per le inquadrature ardite e spettacolari, ma anche per il loro ritmo di narrazione, mi sono rimaste radicate dentro e inconsciamente riemergono attraverso quello che disegno.

Solitamente qual è il tuo modo di lavorare, come procedi?
Ha origine tutto  dalla lettura del soggetto e di conseguenza della sceneggiatura, che inizialmente avviene in maniera veloce, in modo che possano istintivamente suggerirmi tagli e inquadrature. Poi il tutto viene riletto in maniera più accurata. In questa fase disegno anche un veloce storyboard di ogni singola tavola, ma sempre cercando se possibile di disegnarle tutte in maniera consequenziale, per mantenere una narrazione coerente e avvincente. Contemporaneamente provvedo a rintracciare quanta più documentazione possibile, che in genere viene fornita dallo sceneggiatore, ma che io cerco sempre di integrare con altro materiale. A questo punto realizzo gli studi solo dei personaggi principali o degli oggetti e dei mezzi protagonisti in quella sequenza. Dopodichè avviene la realizzazione della tavola, dapprima con schizzi vignetta per vignetta, poi con la definizione di tutti i disegni e,  successivamente, con l’inchiostrazione. Per quanto riguarda gli strumenti utilizzati, ne abbiamo già parlato ampiamente sopra.

Analizzando gli ultimi lavori che hai realizzato per la SBE, sei stato chiaramente la colonna portante da un punto di vista grafico del progetto Greystorm. Quali sono le difficoltà nel disegnare una serie fantascientifica ambientata circa cento anni fa?
Con l’esperienza fatta in tutti questi anni, ho capito che per fare bene questo lavoro occorre investire molto tempo oltre a quello che si dedica alla realizzazione pratica della tavola, nel recupero di immagini e documentazione scritta, che spesso agevolano il lavoro ma soprattutto lo rendono credibile. Detto questo, ne consegue che le difficoltà di realizzazione di un prodotto come Greystorm si sono presentate soprattutto nel documentarsi e nel capire attraverso le immagini e gli scritti quanto sia stato ricco quel periodo storico, cercando di riproporlo negli usi e costumi dei nostri protagonisti. Per quanto riguarda l’aspetto grafico invece, devo dire con un po’ di orgoglio, che seppure entrato nello staff di questa miniserie in lavorazione già avviata, dalle mie prime tavole realizzate è nata un’intesa e una stima reciproca con Antonio Serra che mi ha portato naturalmente a diventare uno dei disegnatori di punta, realizzando un così gran numero di storie e tavole, indirizzando anche gli altri disegnatori della serie per amalgamare il loro lavoro con il mio.


Quanto hai aggiunto di tuo al tipico dossier bonelliano preparatorio che ti è stato consegnato all’inizio della lavorazione? Che spunti hai preso al di fuori del dossier?
Per questo progetto di miniserie, più che in altri tra quelli precedentemente realizzati dalla Bonelli, è stato prodotto un gran numero di disegni preparatori, a cura di Gianmauro Cozzi,  che con grande abilità e precisione, ha disegnato la maggior parte dei mezzi, più i vari protagonisti comparsi negli albi. Su esplicite direttive di Serra, quindi, noi tutti ci siamo basati su questi studi preparatori, ma ognuno di noi ha avuto modo di inventare altrettanto all’interno della serie. Personalmente sono stato l’ideatore di alcuni elementi dei quali vado fiero, tra questi il Bastone di Greystorm, la sua Gamba metallica, il suo laboratorio visto nell’albo 6, la nostra simpatica mummia, il malefico insetto che zombizza la gente, gli zombie, le maschere antigas, l’imponente Mammuth e tante altre cose, senza dimenticare di aver reinventato la versione definitiva di Ian Thompson e la versione finale di Hoanui, con le dreed e il suo tatuaggio tribale sul braccio. Per quanto riguarda la documentazione aggiunta invece, l’aver letto da ragazzo 20000 leghe sotto i mari di Verne ha costituito un aiuto quantomeno emozionale, nell’approccio ad alcune situazioni che ho disegnato, spingendomi a riproporre lo spirito di quella lettura, all’interno dei miei disegni. Devo segnalare anche una serie di albi fotografici, della Hulton Getty Picture Collection, denominati “decadi del xx secolo”,  tra i quali i numeri che vanno dal 1900 sino al 1920, che  hanno costituito un notevole aiuto, oltre alla documentazione trovata in internet.

Il tuo Robert Greystorm è quello dall’aspetto più luciferino, più violento. Sono state indicazioni dello sceneggiatore, o la tua interpretazione è stata volutamente sopra le righe?
Innanzitutto, spero che definire il mio Robert come “sopra le righe” voglia in realtà dire che sono riuscito a caratterizzarlo in maniera credibile e personale, poi credo che la spiegazione stia nel fatto che, attraverso le lunghe chiacchierate con Serra, il personaggio da subito delineato nella mia mente non poteva che essere così, sapendo oltretutto che il suo ideatore cercava questo tipo di interpretazione. Credo anche  che il mio modo di cercare di muoverlo e disegnarlo realisticamente abbia contribuito a renderlo vivo e forse maggiormente credibile nella sua cattiveria, ribadendo che il nostro Greystorm, a mio avviso, poteva essere interpretato solo così.

La miniserie di Greystorm è stata una delle sorprese positive dello scorso autunno. In cosa è riuscita a fare breccia nel cuore dei lettori?
Avere una risposta certa a questa domanda vorrebbe dire la soluzione di tutti i problemi di chi propone storie. In realtà possiamo solo fare delle considerazioni. Greystorm ha saputo raccontare una grande storia classica, creando una alchimia tra avventura, steampunk/fantascienza, horror, passione, violenza, amore, diversi cenni storici e tanta poesia nelle sue varie forme, il tutto attraverso un personaggio caratterizzato e molto forte, che ha permesso di raccontare tutti questi elementi in una chiave diversa e meno ipocrita. La storia è stata raccontata tramite le debolezze umane e il lato oscuro che appartiene a tutti noi. Probabilmente la risposta è proprio il fatto che questo personaggio ci ha permesso per una volta di immedesimarci in quegli aspetti della nostra personalità meno lodevoli e per nulla edificanti, donandoci una chiave di lettura della storia originale.


Pensi che si possa attingere al genere sci-fi perché di nuovo in “auge”?
Non saprei come rispondere, per me il genere non è mai tramontato. Personalmente ho sempre amato i racconti fantastici, dove è presente lo sforzo non solo di raccontare una storia, ma anche di inventarsi un contesto che affascini e sorprenda. In questo, il lavoro fatto sia per Greystorm ma anche per Brad Barron, è stato molto stimolante e mi ha permesso di inventare parecchi mezzi avveniristici e tipici di questo genere.

Oltre a essere l’ultima delle tue fatiche, come collochi il lavoro realizzato su Greystorm nel tuo percorso di disegnatore (in termini di evoluzione di disegno, di confronto con lo sceneggiatore)?
Ovviamente come il lavoro più riuscito,sia sotto il profilo tecnico del disegno,che per il rapporto di stretta collaborazione avuto con lo sceneggiatore. Senza il confronto costante con Antonio Serra,e gli stimoli derivati dal personaggio e dalla storia,probabilmente non avrei avuto l’evoluzione e la crescita stilistica che penso di aver raggiunto. Serra mi ha aiutato nell’individuare i punti deboli del mio disegno,spronandomi a migliorarli, spesso chiedendomi di rifare e correggere,ma anche analizzando insieme soluzioni differenti. Di mio ho sempre avuto la necessità di riscontrare storia dopo storia,un miglioramento sia nel disegno che nell’inchiostrazione,a volte in maniera quasi ossessiva,ma sicuramente come la via unica da perseguire. Credo infatti, che per trovare sempre nuovi stimoli,sia per me necessario dover riscontrare una crescita nel mio modo di disegnare,che si manifesti da una produzione all’altra e a volte da una tavola all’altra,questo mi porta naturalmente a pretendere molto da me stesso, ma credo anche ad una conseguente evoluzione stilistica.

Qual è stata la cosa più divertente o facile da realizzare in Greystorm e quale la più difficile?
Istintivamente risponderei “tutto” e varrebbe per entrambe le domande. Entrando invece un po’ più nel dettaglio, dirò che aldilà delle difficoltà iniziali, una volta capito il carattere del personaggio e il suo modo di ragionare, disegnare e muovere il nostro Robert Greystorm è stata una delle cose più naturali e meno forzate del lavoro ,guardandomi bene dal dire che sia stato facile, solo forse più istintivo. Anche tutta la tecnologia presente nella serie mi ha richiesto parecchio impegno, ma amando questo tipo di cose il divertimento è stato grande. Sicuramente la difficoltà maggiore è stata rappresentata dalla continuity della saga, perché i nostri protagonisti nel corso dei vari albi sono cresciuti e invecchiati, e graficamente andavano modificati e resi credibili.

Hai collaborato anche alla miniserie Brad Barron; altra serie sci-fi ambientata nel recente passato. I numeri da te realizzati (7 e 15, La Luce dell’Unico e Nel cuore della bestia) erano particolarmente ricchi di macchinari tecnologici e armamentari medici all’avanguardia. Stai sviluppando, dopo aver accompagnato per anni Mister No su scalcagnati aerei residuati di guerra, una passione per la fanta-tecnologia?
Come già anticipato, io amo il genere, lavorare per Brad Barron è stato assolutamente esaltante, perché arrivando da Mister No, dove il maggior impegno richiesto era lavorare sui personaggi e le ambientazioni naturalistiche, ho potuto dare libero sfogo all’immaginazione. Tutta la tecnologia fantascientifica, ma anche i mostri che ho disegnato in quei miei albi di Brad, sono elementi che in Mister No si erano visti pochissimo o quasi niente, ma che in realtà penso di avere sempre avuto nel mio background visivo. L’elemento di congiunzione poi che univa i due personaggi erano proprio gli anni ‘50, periodo storico molto stimolante da rappresentare e dal quale sono partito nell’immaginare oggetti e mezzi futuribili, tipici di un certo cinema.
È natu­rale che un dise­gna­tore senta la neces­sità di espri­mersi attra­verso la pro­pria arte, in qual­siasi forma essa si mani­fe­sti, ma è anche inne­ga­bile che quando que­sta ti per­mette di vivere, per­ché dive­nuta pro­fes­sione oltre che diver­ti­mento, devi solo esserne con­tento e farlo con pas­sione.

In Brad Barron cosa hai trovato di nuovo rispetto a quanto avevi realizzato in precedenza?
Un approccio più libero nell’affrontare il lavoro e un minor peso della responsabilità, di cui sei investito quando lavori a un personaggio dalla grande storia, come Mister No. Nel caso di Brad Barron infatti, partivamo tutti da zero e c’era molto da inventare, mostri,  mezzi, personaggi e tutti noi autori ne sentivamo l’enorme stimolo. Ogni disegnatore infatti ha potuto dare libero sfogo alla propria fantasia, cercando di riproporre il sapore e l’atmosfera di una certa filmografia di genere, alla quale si rifaceva tutto il progetto.

E cosa ti piacerebbe affrontare in futuro?
Ogni autore nutre speranze e ambizioni, e sognare non costa nulla. Personalmente non ho mai voluto spendere troppe energie, progettando obbiettivi inarrivabili, sono un tipo fin troppo concreto, ma se dovessi prospettare dei punti di arrivo, mi piacerebbe lavorare per i comics americani, disegnando almeno una volta storie del Corvo, di Hellboy, e su tutti il mio supereroe preferito, Batman. Rimanendo in casa nostra invece, spero un domani di poter disegnare Dylan Dog, non solo per il prestigio del personaggio, ma soprattutto perché ho sempre amato l’horror ed il gotico.

Quali sono i tuoi prossimi progetti per la Casa editrice Bonelli?
Diversi. Da alcuni mesi ho intrapreso un progetto su ideazione e testi di Stefano Vietti, sotto la supervisione e l’aiuto alla scrittura dell’esperto Antonio Serra. Si tratta di una produzione riconducibile ai vari mondi paralleli proposti in Universo Alfa e che in cuor nostro speriamo possa diventare anche il numero zero di una nuova iniziativa editoriale, o in alternativa un romanzo a fumetti. È recente comunque anche la conferma di un nuovo progetto, nel quale sarò coinvolto su esplicita richiesta del suo ideatore, e la cui collaborazione per me avrà inizio a gennaio. Parliamo della nuova miniserie fantascientifica scritta da Roberto Recchioni.

Dettaglio in anteprima dal nuovo lavoro con Vietti

Delicata domanda classica per gli autori bonelliani: hai in mente (e hai tempo per) qualche progetto extra Bonelli?
In questo momento, devo riconoscere che soffro un po’ per l’assenza di tempo, da poter dedicare a iniziative personali o anche solo per disegni liberi o illustrazioni. È naturale che un disegnatore senta la necessità di esprimersi attraverso la propria arte, in qualsiasi forma essa si manifesti, ma è anche innegabile che quando questa ti permette di vivere, perché divenuta professione oltre che divertimento, devi solo esserne contento e farlo con passione. Questo è quello che faccio, vivendo cose scritte e pensate da altri come mie e cercando di personalizzarle quanto più possibile, anche se spero un domani di poter realizzare un mio libro di illustrazioni, con tema la musica rock e alcuni suoi grandi protagonisti. Da anni comunque dedico molto del mio tempo alla musica vera, quella suonata. Ho una band rock, gli Schermonero, con cui ci divertiamo a suonare cover in giro per locali, cosa che spero di portare avanti per tanto tempo ancora, perché non riesco a scindere il bisogno di disegnare da quello di suonare.

Riferimenti:
Biografia
di Alessandro Bignamini dal sito Sergio Bonelli Editore

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