Siamo a settantacinque anni di Superman. Cinquant’anni fa, quando ne aveva venticinque (comunque già una bella età, allora, per un personaggio seriale), Umberto Eco scriveva un saggio, intitolato Il mito di Superman, che sarebbe stato pubblicato, nel 1964, insieme ad altri saggi memorabili (come quello su Steve Canyon e quello sui Peanuts) nel volume Apocalittici e integrati. Era la prima volta, certamente in Italia, e probabilmente nel mondo, che un saggio colto e autorevole prendeva come oggetto la produzione di massa, e in particolare Superman. Si sa che le reazioni dell’Accademia, in Italia, furono feroci: ci fu persino chi arrivò a dire che, di questo passo, si sarebbe arrivati a studiare i fumetti e le canzonette all’università, e non si poteva immaginare un mondo peggiore di quello in cui qualcosa di questo genere potesse arrivare a succedere. Non so se il mondo di oggi sia migliore o peggiore di quello del 1964, me, se anche fosse peggiore, presumibilmente non lo sarebbe perché canzonette e fumetti vengono studiati (ancora troppo poco, in verità) nelle università.
A rileggerlo oggi, il saggio di Eco su Superman sembra non dirci molto di più di quello che già sappiamo: la cultura di massa e i suoi simboli, l’impossibilità del divenire per non far invecchiare il personaggio, l’importanza della ripetizione, la costruzione mitica e fiabesca… Sono tutti temi su cui la sociologia della cultura e l’antropologia hanno battuto e ribattuto nei decenni successivi. Chiunque abbia oggi un’infarinatura anche minima di teoria dei mass-media conosce benissimo questi temi.
Ma nel 1964 avevano suscitato uno scandalo, e non erano per nulla scontati. Forse non è stato Eco a utilizzare ciascuno di loro per la prima volta; ma così, tutti insieme, e buttati a forza nel contesto della cultura accademica italiana, ancora profondamente crociana, fecero l’effetto di una bomba. Che oggi ci appaiano così scontati è la prova dell’influsso enorme che il libro di Eco ha avuto sulla cultura italiana.
Eco non sembra dimostrare, nel suo testo, una particolare simpatia per Superman. Mentre il discorso su Milton Caniff e quello su Charles M. Schulz tradiscono l’ammirazione per questi autori e per la loro opera, l’analisi del mito di Superman mostra sostanzialmente il distacco dello scienziato nei confronti della propria cavia, vista non nella sua individualità bensì come semplice esemplare (magari più tipico degli altri) della propria specie.
Se Steve Canyon e i Peanuts, pur essendo prodotti seriali, sono comunque produzioni autoriali, degne di essere analizzate come si analizza un’opera d’arte (memori del fatto che la serialità è consustanziale a grandi classici come L’Orlando furioso, benché la cultura italiana tendesse a dimenticarlo), lo stesso non si può davvero dire per Superman, e per il fumetto di supereroi in generale. Non posso dare troppo torto a Eco.
Non c’è grande arte né nelle storie di Superman né in quelle di (quasi) qualsiasi altro fumetto di Supereroi sino a gran parte degli anni Sessanta. Non è alla loro qualità artistica che si deve il loro successo. È buffo però che la ristampa del 1977 nei tascabili Bompiani di Apocalittici e integrati (proprio quella che ho sotto gli occhi adesso) abbia in copertina un immagine del Batman realizzata da Neal Adams.
Una scelta strana, da parte del grafico, un po’ perché in tutto il libro di Eco a Batman sono dedicate davvero solo venti righe, nelle quali non si fa altro che descrivere gli elementi narrativi principali della serie, e un po’ perché proprio il Batman di Neal Adams rappresenta uno dei primi casi di fumetto di supereroi d’autore, in cui si cerca di abbandonare gli stereotipi dei decenni precedenti e di scavare nella psicologia e nel mito del personaggio alla ricerca di aspetti non ancora esplorati.
Forse la parte del saggio di Eco che continua a dirci qualcosa di non troppo ripetuto dalle generazioni successive è quella in cui si parla del rapporto tra la struttura del mito e la civiltà del romanzo. Nel racconto del mito, il lettore/spettatore sa già cosa sta per succedere, e il piacere è quello di ritrovare, nel nuovo racconto, l’identità della storia e di quello che significa.
Nel romanzo della modernità, l’accento viene invece posto sullo sviluppo, sulle trasformazioni, sull’imprevedibilità di quello che sta per accadere, e quindi sull’invenzione dell’intreccio, che è quindi ciò che viene messo in primo piano. Di conseguenza – ci dice Eco –
“il personaggio mitologico del fumetto si trova ora in questa particolare situazione: esso deve essere un archetipo, la somma di determinate aspirazioni collettive, e quindi deve necessariamente immobilizzarsi in una sua fissità emblematica che lo renda facilmente riconoscibile (ed è quello che accade per la figura di Superman); ma poiché è commerciato nell’ambito di una produzione ‘romanzesca’ per un pubblico che consuma ‘romanzi’, deve essere sottoposto a quello sviluppo che è caratteristico, come abbiamo visto, del personaggio del romanzo.”
Ne conseguono una serie di peculiarità per la figura di Superman e per le modalità dei suoi racconti: la complessiva atemporalità delle storie (in altre parole, non c’è continuity), l’impossibilità narrativa a utilizzare i superpoteri per cambiare davvero il mondo (perché questo creerebbe davvero un prima e un dopo)…
Si noti che l’opposizione tra racconto mitico e racconto romanzesco non è assoluta: nel racconto di carattere mitico possono essere introdotte novità, ma non sono le novità la cosa importante; viceversa nel romanzo ci possono essere (e ci sono, eccome) delle prevedibilità, ma non sono ciò che attira la nostra attenzione. La differenza non sta tra presenza e assenza di noto e nuovo, ma nel diverso mix e nella diversa scala di importanza.
Tenendo presente questo, ci potremmo domandare se per il Superman di oggi (e in generale per le storie di supereroi di oggi) valgano davvero le stesse regole esposte da Eco nel ’64. A me sembra che in linea di massima valgano, anche se la lancetta della bilancia si è spostata leggermente (o forse apparentemente) nella direzione del romanzo, cioè dell’enfatizzazione del nuovo.
Un personaggio seriale (e tanto più uno che resiste da 75 anni) vive per forza pesantemente nella dimensione del mito, e ci sono delle aspettative che il pubblico ha e che non possono essere deluse: Superman può perdere delle battaglie, ma non la guerra; può persino morire, ma poi risorgerà (e più mitico di così!!). Però, la variazione, lo sviluppo ci devono essere.
D’altra parte, già quando Eco scriveva le sue riflessioni, Kirby e Lee avevano introdotto (da poco, e in Italia erano ancora quasi ignoti) alcuni principi di continuity, mostrando che è possibile che i personaggi seriali abbiano uno sviluppo, pur se con molta prudenza e mantenendo potenzialmente la reversibilità. Soprattutto, se li inserisci in un universo coerente, è sufficiente che la stabilità ce l’abbia l’universo, e l’insieme complessivo dei personaggi: se questo è garantito, può anche capitare che la Jean Grey di turno finisca per diventare un super villain, fare grandi guai, e infine morire drammaticamente (producendo l’impressione che alla fine qualcosa di irreparabile è successo davvero). Magari la recupererai qualche anno dopo raccontando una storia diversa, e reinterpretando quello che si era raccontato prima…
Insomma, i principi di fondo non cambiano, ma il modo di applicarli si è probabilmente fatto molto più raffinato. L’immobilità del mito può essere garantita in realtà in modi più sottili da quelli che poteva allora catalogare Eco. In aggiunta, il pubblico anche dei fumetti di supereroi è diventato più vario e più maturo; e di quando in quando persino Superman può essere protagonista di storie dalla trama originale e imprevedibile.
Quello che potremmo dire è che, visto dal punto di vista di oggi, forse la distanza tra racconto mitico e racconto romanzesco, tra serialità e creazione artistica, non è poi così grande come, nel 1964, Eco poteva ancora credere.
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