Wolverine – Le Origini

di Claremont, Miller, Jenkins, Kubert
I classici del fumetto serie oro #31 – 6,90euro
Wolverine è il nome di un orso. Ma è anche il nome di un mutante. I mutanti sono in assoluto una delle “invenzioni” della Casa Delle Idee (la Marvel) di maggiore successo commerciale; l’idea di base, quella di raccontare le vicende di un gruppo di umani più che umani costretti a difendersi dall’ignoranza e dall’odio verso la loro diversità, non è la più originale in assoluto ma indubbiamente, nel settembre 1963 (X-Men n.1), inauguro’ una nuova era nell’ambito dei supereroi a fumetti. I mutanti sono esseri umani che hanno nel loro DNA un’alterazione genetica (una mutazione); durante la pubertà questa mutazione si palesa (inaspettatamente e spesso con effetti spettacolari) ed il mutante scopre di avere una qualche capacità particolare, non raramente foriera anche di problematiche controindicazioni. Nell’albo “The Incredible Hulk” n.180 dell’ottobre 1974 con un’apparizione flash poi seguita nel numero successivo da uno scontro con tutti i crismi con il Golia Verde conosciamo per la prima volta il mutante più famoso al mondo, Wolverine. Di origini canadesi, fondatore del super gruppo Alpha Flight (quasi gli Avengers made in Canada, per intenderci), viene creato da Len Wein sull’onda delle richieste di Roy Thomas che stava progettando una rinascita del mensile dedicato ai mutanti (che avverrà nell’albo X-Men n.93 del Maggio 1975 “Second Genesis”) nel quale prevedeva l’innesto di supereroi provenienti da diverse parti del mondo, visto il successo crescente della Marvel all’estero. Wolverine nasce quindi come giovane “cane sciolto” e solo successivamente, dopo l’entrata nel gruppo X, viene descritto e modellato come personaggio a tutto tondo grazie soprattutto all’intervento ai testi di Chris Claremont. La cura con la quale quest’ultimo ha delineato i suoi tratti lo ha reso così interessante da fargli dedicare (caso unico) una serie ad hoc ed una miriade di progetti paralleli che ha accresciuto nel tempo il volume di notizie e di dubbi relativamente al suo passato. Il volume della Serie Oro dedicato a Wolverine ristampa alcune storie fondamentali per la conoscenza del buon Logan (nome con il quale lo conoscevamo e che apprenderemo poi non essere il suo nome di battesimo). La prima miniserie, chiamata semplicemente “Wolverine”, è del 1982 ed è uno dei primissimi tentativi di dare spessore “a solo” al mutante canadese. Opera del tessitore Claremont e dell’ancora acerbo Frank Miller alle matite, narra le gesta di un Wolverine “innamorato” alle prese con grossi problemi di ambientamento nel Paese del Sol Levante. Scherzi a parte, in questa miniserie Claremont inizia a calare il personaggio in realtà che si distaccano dal mero fumetto superoistico e permette a Wolverine di emergere fra i tanti personaggi alle sue capacità mutanti sì, ma anche grazie ad un senso della morale tutto suo ed un “saper vivere” frutto, e lo si capisce fra le righe, di esperienze molto lunghe e provanti. La seconda miniserie presentata è del 2001 e rivela molte cose del suo passato che fino ad allora erano state taciute o solo accennate. Con una operazione commerciale molto importante, affidando il plot a Bill Jemas, Paul Jenkins ed all’Editore Capo della Marvel (l’ottimo Joe Quesada), le cover (splendide, ridotte a quarti di pagina nell’edizione italiana) allo stesso Quesada, i disegni tra il classico e il moderno al tempo stesso Andy Kubert (figlio di cotanto padre Joe Kubert) ed ai (spiacenti ma gran parte della luminosità si è persa nella stampa del volume de “I classici del fumetto”) colori di Richard Isanove, la Marvel ci spiega dove è nato Wolverine, di chi è figlio, che rapporti ha con Sabretooth (acerrimo nemico al quale è sempre parso assomigliare un po’ troppo), perché si fa chiamare Logan, quando ha scoperto i suoi poteri mutanti. La miniserie è affascinante, d’ambientazione quasi d’epoca, sembra dipinta più che disegnata: ci fa comprendere le cause della voglia di solitudine di Wolverine (i terribili traumi dell’adolescenza) e finalmente mettiamo tanti tasselli a posto: il suo nome è James Howlett ed è nato sul finire del 1800, secondogenito e malaticcio discendente di una stirpe nobile e ricca; ha manifestato i suoi poteri mutanti il giorno della morte del padre (e della madre) ed è stato rigettato dal nonno paterno come una “degenerazione”, un essere fuori razza, alterato (“aberration” è la parola della versione originale, più che “abominio” come nella traduzione nel volume). Dopo queste vicende (e la morte di Rose, la ragazza che lo accudisce dopo la fuga da casa) Wolverine sarà ribattezzato Logan, nome del padre del “fratellastro” Sabretooth ed inizierà la sua vita solitaria. La miniserie “Wolverine: The Origin” si conclude con l’immagine del diario di Rose che brucia nel camino; su di esso leggiamo ancora il nome Rose che inizia a cancellarsi fra le fiamme, un po’ come il famoso slittino di legno con inciso il nome Rosebud che brucia nella scena finale di “Citizen Kane” di Orson Welles. Wolverine, in altri albi e in altri tempi e luoghi, attraverserà altre vicende intricate quali il rivestimento delle sue ossa con il metallo indistruttibile dell’Universo Marvel narrato nella mini Weapon X di Barry Windsor Smith o le sue avventure à la Bogart nei quartieri malfamati di Madripoor. Ma queste, ovviamente, sono altre storie. In coda, un ulteriore appunto al “come” la miniserie sia stata pubblicata in questa edizione; le vignette nell’edizione originale sono incastrate in uno sfondo nero a tutta pagina oppure sono loro stesse a tutta pagina. In questa, che pure rifà per la grandezza della pagina al formato comic book Usa, c’é sempre un fastidioso bordo bianco che, in ordine, fa sì che i disegni siano rimpiccioliti, fa sì che il lettering all’interno dei baloon sia in formato ridottissimo, fa perdere l’effetto grafico di una pagina bordata di nero fino al rifilo, riduce l’impatto visivo delle tavole a tutta pagina.
P.S. Per saperne un po’ di più sulle origini di Logan-Wolverine, come talvolta qualcuno ha ricordato, sarebbe stato il caso di chiedere numi a Herman Melville, che nel suo “Moby Dick”, parlando di Ahab, già nel 1851 così scriveva: “He lived in the world, as the last of the Grisly Bears lived in settled Missouri. And as when Spring and Summer had departed, that wild Logan of the woods, burying himself in the hollow of a tree, lived out the winter there, sucking his own paws; so, in his inclement, howling old age, Ahab’s soul, shut up in the caved trunk of his body, there fed upon the sullen paws of its gloom!” (Trad.“E come quando finite Primavera ed Estate, quel selvaggio Logan dei boschi, seppellendosi nel cavo d’un albero, vi passava l’Inverno, succhiandosi le zampe: così nella sua inclemente, ululante vecchiaia, l’anima di Ahab, s’azzittiva nel tronco vuoto del suo corpo, per cibarsi disperatamente delle zampe della propria tristizia!”). Un Logan selvaggio nei boschi? Definirlo un preview sembra eccessivo? (Davide Occhicone)

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