Secondo tentativo di trasformare il romanzo del novellista, nonché sceneggiatore cinematografico, Paul Auster, questa versione disegnata da David Mazzucchelli e scritte dallo stesso Mazzucchelli e da Paul Karasik, è stato un successo in Usa (naturalmente in proporzione al bacino di utenza a cui è rivolta), ed è frutto anche della forte volontà di Art Spiegelmann (guru del fumetto underground americano), autore di culto e vincitore del premio Pulitzer per il volume Maus.
Città di Vetro non è solo un perfetto esempio di fumetto splendidamente riuscito grazie alla collaborazione di più autori ma è soprattutto un enigma letterario e metacomunicativo di alto livello speculativo. L’esplosiva fusione del fortunatissimo testo originale di Paul Auster (il primo dei capitoli che compongono la trilogia di New York) con la sceneggiatura di Karasik e i disegni essenziali di Mazzuchelli dà vita, infatti, a una profonda riflessione sulla Parola, sulla Personalità e sul Caso.
Con un inizio quasi in sordina prende il via la storia, che avvince sia dal lato artistico che da quello narrativo. Infatti tutto cominciò con un numero sbagliato… La telefonata che raggiunge il protagonista ma diretta a tale Paul Auster. Così l’inseguimento mimetico tra personaggi veri o presunti si manifesta già nelle prime eccezionali pagine nelle quali, attraverso un continuo richiamo segnico, vengono scardinate tutte le regole che sostengono la fiction, a partire dal genere noir. Quinn, il protagonista, lo scrittore fantasma, usa uno pseudonimo per mascherare la propria identità, si identifica nella sua creatura fantastica, ovvero Max Work e finisce per impersonare questo Auster, omonimo del vero scrittore che per analogia si trasforma, così, in un personaggio di finzione. “Mi chiamo Paul Auster, non è il mio vero nome” è l’unica certezza di un fumetto che supera il romanzo originale da cui è tratto grazie alla forza evocativa e rappresentativa del disegno del maestro Mazzuchelli.
La storia è affascinante, intrigante, promette soluzioni e risoluzioni ed alla fine puntualmente non mantiene alcuna delle promesse fatte all’inizio (il che non è un male).
Nel racconto ci si perde con molta facilità, ma ciò non va frainteso: il commento non è assolutamente negativo, anzi, esattamente il contrario. Perdersi in questa storia significa lasciarsi andare al movimento della narrazione: prima lento, poi andante, poi mosso, poi di nuovo lento e poi di nuovo andante. Il labirinto logico, costruito su teorie filosofiche, teologiche ed anche letterarie, su cui si basa la storia conduce ad una via d’uscita che altro non è che il punto di partenza. Il bandolo della matassa non è mai in mano al lettore, ma è sempre costantemente in quelle dell’autore.
Ma non c’é solo ragione e speculazione in Città di Vetro. La fragilità del vetro evocata nel titolo è soprattutto una fragilità emotiva ed esistenziale. Le personalità che popolano la società moderna si mostrano sempre più insicure, deboli e situazionali. Siamo quello che riusciamo ad essere a seconda delle vicende scomode e difficili che ci troviamo ad affrontate. La sanità mentale è continuamente messa alla prova dalla scomparsa dei punti di riferimento e, proprio come in un romanzo di genere, veniamo messi costantemente al centro di una vicenda che non riusciamo a controllare perché mossa dal caos, un caos che sembra la mente di uno scrittore folle, un Destino scompaginato e stralunato.
Non deve scoraggiare questa aura di lettura cervellotica: il libro si fa leggere tutto di un fiato e non stanca assolutamente. In un mare di soluzioni grafiche e narrative affascinanti nella loro schematicità e sintesi scegliamo una serie di punti che più degli altri ci hanno intrigato.
In primis tutto il libro è disegnato in uno stile essenziale e immediato: i personaggi stilizzati al massimo e sempre dimessi e con lo sguardo rivolto al terreno. Le gabbie, strettissime e rese ancora più anguste dal formato piccolo a volte sono claustrofobiche mentre altre volte approfittano di un gioco di lente zommante per dare improvvisamente respiro alla pagina. Di indubbio effetto le nove pagine nelle quali il giovane Peter Stillman farnetica dando libero sfogo ai suoi pensieri in libertà, con i baloon che escono dal nulla pieni di frasi sconnesse (o forse no).
Altro gioco, stavolta narrativo, è il riferimento di Auster al Don Chisciotte, ed allo “scherzo” dell’autore Miguel de Cervantes Saavedra, che sosteneva di non aver scritto lui il romanzo, ma di averlo ritrovato in una edizione tradotta in spagnolo per conto dello stesso Don Chischiotte, traduzione basata su un manoscritto arabo che altro non era se non la trascrizione dei racconti narrati da Sancho Panza… Insomma un romanzo scritto da un autore che dice di averlo riportato da un altro che in realtà è stato tradotto dal racconto di uno dei protagonisti che l’ha fatto tradurre dalla storia raccontata dall’altro protagonista tradotta in arabo… (notevole, vero?)
Allo stesso modo il romanzo a fumetti, come si scopre alla fine, non è che il resoconto scritto delle vicende tratte dal diario di Daniel Quinn, che alla fine della storia scompare, perso nelle sue parole… il tutto fra immagini oniriche e reali allo stesso tempo.
Sono mille e uno i temi di questo racconto: al lettore attento il piacere di scoprirli attraverso letture successive, in modo da svelare una stratificazione e una densità che solo il miglior fumetto è in grado di generare. E alla domanda “Che senso ha modificare un libro – il romanzo originale – per crearne un altro – il fumetto?” non possiamo che rispondere con il silenzio delle idee e delle immagini che rimbalzano in testa a lettura ultimata.
Abbiamo parlato di:
Città di vetro
Paul Auster, Paul Karasik, David Mazzucchelli
Coconino Press Fandango – 2011
174 pagine, brossurato, bianco e nero – 22,00€
ISBN: 9788876181979
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